un racconto di Simone Giraudi


Dopo ore dalla fine delle lezioni l’interno della palestra puzza ancora di sudore. La luce dei neon che tappezzano il soffitto illumina il pavimento in PVC e le spalliere vecchie di almeno quindici anni, in tutta la loro impietosa sciatteria di plastica.

Andrea è seduto su una sedia recuperata da un’aula. Una sensazione strana, a distanza di oltre un decennio dall’esame di maturità, soprattutto visto quanto spesso gli capita di vedere il presente allontanarsi troppo velocemente. Ha addosso una felpa viola e un paio di pantaloni della tuta. Si è vestito così perché ha immaginato che sia più facile raccontare i fatti propri a una decina di altri sconosciuti, se si è comodi. Attorno a lui in cerchio gli altri partecipanti alla seduta settimanale del GSC.

«C’è spazio ancora per un intervento, se qualcuno se la sente» dice pacato il coordinatore del gruppo di sostegno per cronostatici. Andrea non ricorda il nome, ma prima di aver deciso di partecipare l’ha cercato su Google. È di qualche anno più vecchio di lui e sembra non avere alcun titolo per dirigere incontri di questo tipo se non il lavoro di tecnico informatico a scuola, che gli permette di avere le chiavi della palestra con una certa facilità. È una sorta di autogestione: non esiste ancora una figura professionale specificamente rivolta ad aiutare quelli come loro. Molti s’improvvisano, e per Andrea è il primo incontro. Non ci crede molto ma la speranza, che lui lo voglia ammettere oppure no, è quella di arrivare a cambiare opinione.

All’appello risponde una signora anziana, che si alza in piedi tremando. È chiaro che preferirebbe essere in qualunque altro luogo, a fare qualunque altra cosa.

«Buonasera… mi chiamo Margherita. Rita, se volete. E sono una cronostatica».

«Ciao Rita» le rispondono in molti, con la classica cantilena da alcolisti anonimi. Andrea si rende conto troppo tardi di doverlo fare.

Rita ha settantasei anni, è vedova da quattro, ha tre figli e cinque nipoti. Ha sperimentato la sua prima cronostasi un venerdì davanti alle porte scorrevoli della metro: è rimasta immobile a guardare la gente che le schizzava accanto fuori e dentro il vagone, le loro voci e i messaggi registrati del sistema di trasporto pubblico locale un turbine cacofonico accelerato.

«Andava tutto così in fretta…» dice, con le lacrime agli occhi.  I medici avevano pensato a un ictus ma non c’erano segni, e poi aveva iniziato ad avere episodi simili su base giornaliera. E poi, ancora, avevano iniziato ad averli molti altri.

Quando Rita si siede, dopo aver terminato il racconto, la ringraziano tutti (questa volta anche Andrea).

«Bene, direi che per questa sera abbiamo terminato. Ci vediamo settimana prossima. E non dimenticatevi di compilare il modulo che trovate all’uscita» dice il coordinatore alzandosi e spostando per primo la propria sedia contro una delle pareti libere dalle spalliere. Uno alla volta tutti i membri del gruppo fanno lo stesso e poi escono in fila indiana.

Passando accanto al banco con sopra una manciata di fogli A4, Andrea li vede ancora tutti vuoti. Pensa di riempire una delle caselle, magari basta solo che qualcuno faccia il primo passo. La verità è che il fenomeno delle cronostasi sfugge ancora a ogni comprensione e nessuno di loro ha la speranza di poter capire nulla in più da quegli incontri, se non il modo con cui poterci convivere. Imparare a tenere gli occhi aperti, per capire l’arrivo della prossima crisi. E, alla meglio, nascondersi il prima possibile.

Esce e torna alla sua Citroen, parcheggiata lungo il muro esterno della scuola. È quasi a cavallo di due stalli di sosta, a causa delle cronostasi Andrea non guida più di giorno e la mancanza di abitudine comincia a farsi sentire. Qualcosa cade dall’alto e lui riesce a infilarsi in macchina proprio prima dell’inizio del temporale.

***

Andrea allarga il colletto della camicia con un dito e deglutisce a fatica. Il bordo rigido del tessuto azzurro preme contro la pelle sudata con tanta forza da lasciare il segno.

L’amministratore delegato alla fine del grosso tavolo oblungo si alza per versarsi da bere dalla bottiglia di vetro che gli è stata posizionata davanti qualche minuto prima dell’inizio del meeting. Rovescia l’acqua in un bicchierino da caffè usato fino a riempirlo, cercando di non sgocciolare. Per Andrea, i suoi movimenti lenti e precisi sono scatti improvvisi, sembra una marionetta strafatta di anfetamine.

Tenta di calmare il respiro. Non è niente di che, si ripete. È come mandare avanti un video con il fast forward, non è reale.

Le parole escono dalla bocca dell’AD in una smitragliata incomprensibile. «Quidentrosiamounafamigliaelosapete.Ognisettoreèfortequantotuttiglialtrieseunosmettediesserloalloraglialtrisarannofortiancheperlui.PerquestoaffiancheremoadAndreaunanuovarisorsacheviassicurostiamogiàcercando. Serviràflessibilitàmasaràancheun’esperienzaformativaimportante».

Andrea non riesce a stargli dietro. «Abbiamofinitoviringraziamoperl’attenzioneeviauguriamounbuonproseguimentodigiornata» dice d’un fiato, e tutti gli altri si alzano e iniziano freneticamente a ritirare appunti e stilografiche con il logo dell’azienda. Riunione aggiornata.

Andrea resta immobile. Impossibile non fare casini in quel turbinio di giacche, camice, cravatte e ventiquattrore.

Devo solo aspettare che passi, pensa.

Esce per ultimo dalla sala riunioni. Imbocca il corridoio e invece di prendere l’ascensore per tornare in ufficio si dirige verso l’uscita di sicurezza. Sul pianerottolo della scala antincendio esterna si gode la stasi dell’aria ghiacciata. Si siede sull’acciaio dei gradini, felice di essere solo: senza alcun punto di riferimento esterno, in fondo, il tempo non esiste nemmeno.

Qualcuno dei colleghi avrà notato tutto, ma non importa. Da quando gli sono state diagnosticate le cronostasi tutti sanno di dover chiudere un occhio su sue possibili stranezze o assenze anche improvvise. Non male come scambio: da una parte scarti quotidiani nella percezione del tempo, dall’altra, ironia della sorte, la possibilità di gestire il proprio tempo in maniera più libera rispetto agli altri dipendenti.

Tivù, giornali e podcast iniziano a ripetere che nel giro di poco il fenomeno delle cronostasi si allargherà ulteriormente, che resterà per sempre e comincerà a comparire sui libri di scienza e di storia. Ad Andrea fa strano pensare che sia capitato proprio a lui, immaginarsi parte di un evento così assurdo. A volte si chiede se non si senta così anche chi sopravvive agli incidenti, ai disastri aerei, tipo quello del World Trade Center. Poi, se ne vergogna a morte, perché si rende conto che le due situazioni non sono paragonabili: molti di loro, da quelle esperienze, hanno ricavato un senso e un apprezzamento della vita del tutto nuovi. Dalle sue crisi, invece, non riesce a imparare nulla, se non la totale mancanza di controllo sul mondo che lo circondava.

***

La pioggia cade lenta sul parabrezza della Citroen. Il suono dei grossi goccioloni che si spaccano in cerchi deformati si perde poco dopo in quello ripetuto e sintetico del tergicristallo. I fari illuminano l’incrocio a quattro corsie poco più avanti, rispondendo agli sguardi di fuoco bianco e giallo delle macchine in coda dall’altra parte della strada.

Andrea si stropiccia gli occhi e sbadiglia.

Da quando sono iniziate le cronostasi non ricorda di aver vissuto un singolo istante da sveglio sentendosi al cento per cento dell’energia. Un fenomeno comune tra chi soffre degli scarti temporali, come se, per qualche ragione, in quei momenti in cui tutto il resto va così di corsa il corpo finisca per stancarsi di riflesso.

La grossa Jeep scura che sta dietro la Citroen borbotta, ma all’improvviso il rombo del motore sembra propagarsi come un boato. Nello stesso istante Andrea si rende conto che la pioggia ha cominciato a tempestare la macchina in un acquazzone di violenza tropicale.

Scatta il verde ma lui rimane immobile. Vede la Jeep sfrecciare oltre il finestrino dal suo lato della macchina, dentro l’abitacolo gesti convulsi che somigliano molto a un vaffanculo accelerato. È tardi e l’incrocio è piuttosto sgombro. Andrea si ripete che ci vorrà solo un po’ di pazienza, che deve aspettare almeno sino al prossimo rosso, ma le luci del semaforo presto iniziano a confondersi in una sequenza alternata stroboscopica.

Cerca di concentrarsi piazzando gli occhi sullo specchietto retrovisore. C’è un’altra macchina dietro, adesso, la persona al volante si agita e si sbraccia, poi anche lei sorpassa.

Una scenetta ridicola, come quella dell’AD in riunione, qualche giorno prima. Andrea si rende conto di non sapere più nemmeno che cosa voglia dire, andare di fretta. L’urgenza non esiste.

Spegne il motore. È l’unico gesto capace di dargli un po’ di conforto. Si è appena reso conto di qualcosa che tutti sembrano aver dimenticato, e cioè che un animale spaventato ha a disposizione tre corsi d’azione invece di due: fuggire, attaccare e accettare.

Anche quella cronostasi terminerà. La pioggia tornerà a cadere a una velocità normale e i suoni e le luci del mondo fuori dall’abitacolo placheranno la propria ingiustificata furia. Andrea, in attesa di trovare una ragione per muoversi, sceglie piuttosto di rimanere fermo.