un racconto di Dario Fedeli

Tiro su la zip del vestito che mi ero messa per i trent’anni di anniversario di matrimonio, che io e Sergio abbiamo festeggiato due anni fa. Una festa nel ristorante di paese, una cosa piccola, eravamo una decina. Mi sta ancora bene, un po’ giusto magari. Mi tiene stretta, mi strizza verso l’alto. Ho bisogno di qualcosa che mi tenga in piedi. Prima di uscire dalla camera mi volto verso di lui, guardo per un attimo i suoi capelli brizzolati, la sua espressione arcigna anche nel sonno.

Stamattina faccio i pancake, piacciono sia a Sergio che a Valentina. Un’ora dopo, si alzano e mi raggiungono in cucina, mugugnano per il sonno. Non mi guardano neanche – forse Valentina, con la coda dell’occhio, nota l’abito, ma poi si mettono entrambi a tavola. Si servono i pancake e abbondano con nutella, panna, frutta fresca e sciroppo d’acero, senza dire niente.

«Dormito bene?», chiedo, e anche io mi siedo.

Si limitano a fare di sì con la testa.

Mi metto cinque pancake nel piatto, li guarnisco tutti in un modo diverso, e quando non rimangono che briciole, me ne servo altri quattro. Sergio fa una smorfia – di questo se ne accorge: «Ma quanti ne mangi?».

«Ho fame». Mi volto verso Valentina: «Dopo andiamo a trovare il nonno».

Lei stringe i denti.

«Devo studiare per l’esame di programmazione e algoritmica», brontola.

«Puoi studiare dal nonno, è tanto che non lo vai a trovare».

«Forse perché non ci voglio andare».

Serro la mascella, vorrei rispondere a tono, ma poi mi blocco: «Non ti farà male vederlo una volta ogni tanto».

«E lasciala stare, Giovanna: se non ha voglia, non ha voglia».

«Ma magari mio padre, che ha ottant’anni suonati, ha voglia di vedere la nipote ogni tanto, soprattutto…», ma non riesco a finire, tutti e due neanche mi ascoltano più.

Mi alzo, sparecchio e mi metto a sistemare i piatti. In automatico.

«Si festeggia qualcosa oggi?», chiede Sergio. Io do le spalle sia a lui che a Valentina, ancora seduti a tavola. «No, non direi».

«E i pancake? Saranno anni che non li fai».

Mi limito a scrollare le spalle. «Mi andava».

E allora entrambi se ne vanno: Sergio in bagno per prepararsi per il lavoro e Valentina in camera a giocare alla Playstation.

Quando tornano, do il pranzo a Sergio, lui tira su con il naso e fa un’altra smorfia, non dice niente. Sarà il petto di pollo, saranno i broccoli che non vanno bene. Esce, un tiepido: «Ciao», e mi limito a guardarlo andar via. Penso, penso a quel ragazzo timido ma premuroso di cui mi ero innamorata. Penso a quanto in fretta ho accettato di sposarlo, giusto per liberarmi di mio padre e dei suoi comandamenti – non si esce dopo le 21:30, non si beve, non si sta da sole con i ragazzi.

Valentina tiene il broncio durante il viaggio in macchina fino a casa dei miei, le lancio delle occhiate di sfuggita. Ho un groppo alla gola.

«Come…», mi schiarisco la voce, «come stai?».

Valentina guarda fuori dal finestrino.

«Vale, sto parlando con te».

«Ma come vuoi che stia?».

Sbuffo. «C’è qualcosa che non va? Università, amici…».

«No, sto benissimo! Solo non mi va per un cazzo di venire dal nonno!»

Stringo forte il volante. Suo nonno, l’uomo che mi ha cresciuta.

Eccoci arrivate, parcheggio, Valentina esce dalla macchina con uno scatto. Penserà di tornare prima alla sua Play, ai suoi manga e ai suoi cartoni se si muove in fretta. Corre verso la porta d’entrata, supera il vialetto, tutta impettita, bussa, mio padre le apre, la sento dire: «Ciao nonno, ho un sacco da studiare», e fila dentro, senza un bacio, senza una carezza, senza un: «Come stai?».

Chiudo la portiera della macchina. Mio padre ha un nuovo vicino. O forse è un giardiniere. Sta tagliando l’erba del prato a petto nudo. Un petto pieno di peli scuri, muscoloso, illuminato dal sole. Mi fa un cenno – mi ha vista, sorride. Il vestito mi va ancora bene.

«Giovanna».

«Ciao, papà», lo abbraccio, sembra quasi ricambiare. «Come va?».

«Da poveri vecchi», e poi entriamo.

«Senti,» – parla piano – «ma Valentina la lasci qui?».

Non rispondo subito. Gli do il tempo di tornare ad affondare nella sua poltrona a guardare la tv. «Tanto Vale si è portata da studiare. Almeno qui non ha la Play e studia davvero, anche perché io ci metto un po’ più del solito, che devo passare dal concessionario che è qua vicino. Che ti serve?».

«Ma vedi tu, le solite cose».

Annuisco, poi vado da Valentina per salutarla: è nella camera degli ospiti, sta giocando al Nintendo 3DS, lo zaino è sul pavimento, i libri pure.

«Vado a fare un po’ di spesa per il nonno».

Non risponde.

Sbuffo, di nuovo. «Ciao, eh.» ma non mi muovo, rimango in attesa, con la speranza che mi guardi come faceva una volta, con quegli occhi azzurri in cui c’era solo gioia. Ora è sempre triste, Valentina.  E il peggio è che ce l’ha con me. Io alla sua età ero bella. «Ti voglio bene», aggiungo. Faccio per uscire, anche se qualcosa all’altezza dello stomaco continua a tirarmi verso di lei.

«Mamma».

Mi giro. «Sì?».

«Mi compri le gocciole? Ma non quelle dell’Eurospin, quelle della Pavesi».

Dovrebbe mangiare di meno, ma non glielo dico. «Certo».

Saluto mio padre, lui nemmeno si gira verso di me. «A dopo», dice, ma stavolta non rispondo io.

Passo attraverso il corridoio di uscita, apro la porta. Mia madre mi guarda da una cornice d’argento. Nella foto è rimasta ferma alla mia età di ora. Era bella come me. Lei non mi trattiene più da un pezzo.

Esco di casa e le gambe mi si fanno molli. Il vestito sembra stringere meno, mi devo tenere su da sola. Nonostante tutto, faccio fatica ad allontanarmi. Fili invisibili mi segano gli organi, le vene, il respiro. Più mi divincolo più fanno male. Raggiungo la macchina. Metto in moto, mi allontano dal piccolo mondo racchiuso nello specchietto retrovisore. Mi pare di vedere Sergio, Valentina e mio padre.

Arrivo dal concessionario che ho trovato su internet. Quando scendo dalla macchina, sento già meno dolore. Chiedo informazioni, e mi dirigo verso l’ufficio del consulente che mi ha seguito nella pratica. Mi sta aspettando, dicono.

«Giovanna, buongiorno», ha un bellissimo sorriso, non credo sia solo per me, ma non importa. «Prego, si sieda», mi indica il posto vuoto davanti a lui – «Allora, come va?» – è il primo a chiedermelo da stamattina. Rispondo, convenevoli e carte da firmare. Mi concentro – mi dice qualcosa ma non sento.

«Come?».

«Dicevo, è venuta sola, come fa con la macchina?».

«Oh… passa mio marito, dopo, a prendere questa, io vado via con la nuova».

«Ah bene, suo marito è l’intestatario del conto del bonifico, giusto?».

«Sì».

«Ottimo, le ha fatto un gran bel regalo, è un’ottima macchina, si troverà bene! Ecco le chiavi». Due copie: una è attaccata a un portachiavi con la bandiera dell’Italia, l’altra è di scorta. Le prendo, cerco di dire un grazie convinto, e mi faccio accompagnare alla mia nuova Fiat 500. Salgo – sento uno strap – dev’essere il vestito che ha ceduto. Non importa. Aveva fatto il suo tempo. E poi qui dentro ci sono solo io.

Sono sulla superstrada e la macchina corre. Spingo l’acceleratore quanto serve. Il contachilometri segna novanta, cento, centoventi, di più. Sempre più forte. Apro il finestrino, lancio il telefono – cerco di seguire il volo con la mente, immagino che la traiettoria disegni un filo nero, lungo, che mi lascio dietro, che si allunga. Fino a che non si spezza.

Non c’è più niente che mi trattiene.