un racconto di Fabio Rodda

 

È l’ultima discesa. Per l’occasione, io e Victor ci siamo accesi due Partagas Lusitanias. Ce l’eravamo promesso sei mesi fa, quando hanno chiamato tutto lo staff in sala per dirci che era finita davvero: ancora un’estate, poi si chiudeva. Avevamo riso, vicino alla piscina ancora vuota, perché, come insegnava il Maestro che tante volte mi aveva infilato la mancia nel taschino in cambio della mia discrezione, la vita è già abbastanza piena di tristezza e le lacrime non servono a niente. Meglio ridere forte. In fondo, c’è molto poco in questo mondo di cui non si possa ridere.

Troppo vecchio, strutture ormai impossibili da ammodernare. Obsoleto per i ricchi che salgono lo scalone in infradito senza sentire il profumo dei gigli bianchi, sempre freschissimi. Senza vedere il lampadario di cristallo e i capitelli dorati in cima alle colonne. Troppo vecchio per il mondo di oggi. Come me.

Io e Victor ci conosciamo dal 1982. Lavoravamo sull’Eugenio C, ammiraglia che navigava nel Mediterraneo: Barcellona e i mondiali di calcio, poi Genova. Scesi da quella nave, decidemmo di rimanere. L’Italia pareva un sogno: la gente era felice, confusa, innamorata, ubriaca di pallone e vittorie e quel titolo, “campioni del mondo”, risuonava ovunque e illuminava gli sguardi. Per tutti, era ora di curare, dimenticare, andare solo avanti. Prima Venezia, poi una lettera di raccomandazione per Rimini. Il Grand Hotel era già “quello di Amarcord” e viveva più di memoria che di futuro, ma forse era proprio quello il fascino che portava viaggiatori e starlette, attori e puttane, principi e disperati nel loro ultimo smoking a riempire il giardino attorno alla fontana dei quattro cavalli e le stanze arredate di noce francese e lampadari di Murano. Marcello Mastroianni e sua moglie, gelosa anche delle cameriere; Gardini scurissimo, con quei politici che sorridevano. Tutti quei «Giorgi, tu non mi hai visto, mi raccomando» del parlamentare amico del Papa, che accompagnava ragazzine sempre così giovani, che Victor non aveva il coraggio di chiederne i documenti.

Quante storie nei pochi metri quadrati che ho diretto per tutti questi anni, nello spazio stretto e ripetitivo dell’ascensore da portare su e giù, da tener pulito e in ordine come la divisa. Quante voci, notizie e segreti scivolavano tra i piani, mentre la mia scatola brillante saliva e scendeva, giorno dopo giorno, come i destini di chi accompagnavo al piano: in cima, a goder del sole in faccia, o giù, giù in fondo, da dove non si poteva più tornare.

Abbiamo spento le luci della terrazza e siamo rimasti lì, al buio, ad ascoltare il mare nel silenzio della serata tarda e quasi fresca.

Credevamo non sarebbe mai successo: palazzo storico, vincoli. Poi, il mondo si è rovesciato: la pandemia, la guerra. La paura della recessione. Un nuovo governo giurava innovazione: se c’è da cambiare una legge per far muovere le cose, noi la cambiamo. E così, via il vincolo e liberi tutti: si compra e si vende e si ristruttura. Come se buttar giù qualche muro pieno di storia possa servire a resistere all’onda che sta arrivando e ci travolgerà tutti. Fanno finta di non capirlo.

Il manager ci ha fatto quest’ultimo regalo: spegnere tutto e uscire noi due, i dipendenti più vecchi. Rimaniamo in silenzio, io e Victor. Fumiamo, sempre impettiti nelle nostre divise improvvisamente così fuori luogo. Lo scampanellio leggero dell’arrivo al piano. L’ultimo che sentirò. Davanti a noi, la hall deserta, con le sue vetrate buie sullo scalone, riflette noi due. Ciò che resta. Ciò che rimarrà per sempre qui.