un racconto di Apolae


Sarebbe finito prima o poi quel periodo assurdo, doveva finire, col telefono ormai in azione solo per guai con gli orsi, macchine sbandate addosso a un orso o scivolate in un fosso per evitarlo, vetrine di negozi sfondate da coppie di orsi, stazioni di benzina invase da dozzine di orsi, cacciatori ammazzati da orsi. Roba all’ordine del giorno dalle nostre parti, nessuno a Brixen pareva più sconvolto, andava così da anni e si sapeva, ma in quella stagione balorda qualcosa ammorbava l’aria, tra l’autunno ai titoli di coda e l’attesa dell’inverno imminente, come un presagio spurgato dal permafrost. Me ne resi conto soltanto quella mattina in cui si era davvero passato il segno, perché sbocconcellavo un pretzel alla scrivania, sprofondato nei trafiletti del Dolomiten, quando Helga mi passò la chiamata dal centralino agitando le braccia, lei che non era una da scaldarsi con poco.

– Pronto. Forestale. –

– Mario? Sei tu? –

– Così pare. –

– Cristo Santo, guarda: non hai idea di cosa sto per raccontarti. –

– Spara. –

– Guido sulla SP30, ok? Quella che porta a Luson. –

– Ok. –

– Metto su Radio 3. –

– Ok. –

– Danno “Polvere di stelle” di Natalino Otto, hai presente? –

Andiamo, Franco. Taglia corto.

– Insomma: vedo una volante davanti a un cantiere con la sirena accesa, capito? Mi fermo e chiedo. Loro mi indicano di alzare lo sguardo in su. E guardo. Indovina che diavolo ho visto. –

– Non saprei… vediamo… magari un dito medio gigantesco? –

– Dai, non scazzare. –

– Beh, ne stiamo vedendo di ogni. Faccio fatica a improvvisare. –

– Un orso, Mario. C’era un Orso. –

– E io cretino che perdo anche tempo ad ascoltarti. –

– Aspetta… Aspetta… Era a 15 metri d’altezza, appeso a un traliccio dalle zampe. –

– Cosa?? –

– Impigliato ai cavi elettrici, forse in cerca di cibo. Qualcuno ha tirato su palo e cavi, portandosi appresso la povera bestia. –

– Accidenti. Vuoi che faccia un salto? –

– C’è già una volante, te l’ho detto. E a breve verranno quelli dell’Enel. –

– Tienimi aggiornato se serve una mano. –

– Contaci. –

– Ok. –

Dopo una telefonata del genere, per giunta a fine turno, non restava che staccare e uscire dal comando, a prendersi in faccia il solito schiaffo ruvido della città. Una smorfia irriflessa, poi le pozze di fango misto a neve che impappavano gli stivali e m’infilai nella jeep che segnava -8 e non voleva saperne di accendersi, Dai bella, modello vecchio d’altronde pure se fingevo di ignorarlo, Eddai, che tanto in un modo o nell’altro finiva per partire, Komm schon, a furia di ruotare la chiave e bestemmiare nel buio del pomeriggio. 

In giro gelo e poco viavài. Vicino ai neon di un’insegna un orso in solitaria sarebbe potuto sbucare da un momento all’altro contro un gruppetto di ragazze che fanno jogging in cuffiette, come una brutta sorpresa di carne e pelo sul marciapiede. C’era da stare attente, nessuna correva più sola da quando la signora Pedrotti era stata aggredita portando a spasso il pastore, graffio sulla fronte e prognosi riservata e tutto il resto. Perfino i cartelloni pubblicitari sembravano essere spariti, lungo le strade che tagliavano il ghiaccio e si aprivano stremate in una radura. Senza contare che l’Isarco dormiva gelato prima del tempo, con la gente che già scommetteva forte su quando si sarebbe sciolto. 

Il semaforo accese il verde e girai su Varna per imboccare il vialetto del mio cortile, fari puntati sul grassone di Max che armeggiava in mimetica nel giardino, davanti alla ghiacciaia, dalla quale pareva spuntare qualcosa di grosso. Smontai strofinandomi le mani, che avevo dimenticato i guanti e la circolazione stentava. Lui attaccò bottone continuando a trafficare, chino a spingere quel che stava spingendo, Servus Mario, Hallo Max, Caccia grossa al Rodella, Non mi dire, Vieni guarda qua, Magari domani. Rinchiuse il pesce sedendo sul coperchio con un tonfo sordo, poi venne verso me nella penombra della torcia e si appoggiò alla staccionata come un cinghiale sul trespolo di un canarino. Puzzava di piscio e interiora. Mimò uno sparo verso la mia indifferenza, con le unghie sporche e unte, prima di sparire in quella specie di container che chiamava casa. Io di tempo da perdere con lui non ne avevo, però. Entrai con le mani incastrate nelle tasche trovando Sabine sul divano, in un fagotto di strati di flanella, riflessa nello schermo della tv. L’aria andava cambiata e il salotto era in disordine, ancora non aveva mosso un dito e forse non l’avrebbe mai fatto, cosa che mi lasciava ogni volta amareggiato. Sul tavolino uno scontrino del Lotto (8 e 88 su Venezia), alcune pastiglie viola e mezzo bicchiere d’acqua, con l’alone sottile delle sue labbra slavato sul bordo. Sky Sport trasmetteva un servizio sul trionfo di Jannik e le braci nel camino si stavano lasciando spegnere. Mi avvicinai e lei spostò a malapena il collo.

– Sei tornato prima. –

– Infatti. –

– A lavoro? –

– Niente di speciale. –

– Ach so. –

– Cos’è questa merda che prendi? –

– Non so. Me l’ha data il dott. Taschner. –

– E la ricetta? –

– Buttata. –

– Ah, buttata. –

– Sì, nel camino. –

– Certo. –

Tirai fuori un grappino alle erbe, proseguendo la conversazione mentre rimuovevo l’etichetta del tappo. Sabine mi stava seguendo, affacciata con fastidio dalle occhiaie pesanti.

– Che c’è, adesso? –

– C’è che pensavo a quelle peonie. –

– Oh, quelle. –

– Ja. Non ti ho più vista in serra. –

– È un momento così. Dammi tempo. –

– Sicuro. –

– In zona non ci è riuscito nessuno. – 

– Non mi stupisce. –

– Se ce la faccio è bingo. –

– Uhm. –

Buttai giù un gran sorso, gettando il tappo sui bordi del camino.

– Cazzo vuoi, Mario? –

– Lo sai che il cuscino ha la forma del tuo culo, vero? –

 – … –

 – Lo sai o no? –

 – Fich dich. –

Fu quella l’ultima cosa che sputò, prima di lasciarsi nell’armatura di lana infeltrita ad ascoltare l’eco dei servizi sportivi. Le preferii il noioso cortiletto posteriore e il morso di freddo sotto al porticato. Qualche goccio di alcol mi diede una mano, respiravo a bocca aperta e sembrava di annaspare. Rompo il fiato impugnando la bottiglia dal collo. Frenata e sorsata. Un’altra. Di nuovo. Non sapevo se volevo davvero scolarla. In lontananza, scavalcando il languore dei quartieri, la luce della valle arrivava fioca come un faro visto da chilometri. Si dilatava e stringeva in minuscoli geometrie, quasi dovesse sparire di lì a breve. Sorsata. Un rumore sordo, come di uno struscio che accarezzava il silenzio, mi fece voltare d’improvviso verso il vialetto dei Moser. Sembrava che qualcuno stesse rovistando nel loro pattume. Allora mi trascinai in cantina per prendere il fucile e tornai sul retro del patio, alla meno peggio, barcollando sulle scalette. Con la spalla a un pilastro di legno, puntai il mirino termico verso il lato opposto della strada e la pupilla si contrasse nella sagoma aranciogialla di un orso, col testone a masticare i rifiuti dei vicini come fossero arbusti di salice. Mi tremò la mano, occhio sudato sull’obiettivo, tuttavia era immobile e riuscivo a tenerlo sotto tiro. Non fiutò il mio odore, dovevo essere sottovento e lo guardavo ruminare, a difese scoperte, armando la leva del grilletto intirizzita. Il plantigrado continuava a rovistare mansueto, sarebbe bastato un colpo al polmone per abbatterlo senza sofferenze e non avrebbe dovuto più vagare attraverso le strade, lontano dai muschi congelati delle foreste, per tenere caldo il suo enorme corpo contro i tormenti del Dicembre che sarebbe giunto, delle bufere incessanti di Gennaio, dell’arido stallo di metà Febbraio. La sua figura rossiccia riempiva il visore, attraversata da un groviglio di vene pulsanti, il suo sangue caldo che non volevo sprecare. Strinsi forte la canna, Sciò, sparai una pallottola al cielo crepato e lo feci scappare via con un ruglio rabbioso.

Nel seminterrato riposi il fucile nella custodia e stetti lì per un pezzo con le mani contro la stufa a guardare vecchie foto inchiodate al perlinato. Sabine aveva ritrovato la parola, credo finse di non sentire lo sparo, chiamava perché la cena era servita, È pronto, Ok, Mario mi senti, Jawohl vengo, non che avessi appetito, peraltro, col poco di dispensa che ci rimaneva e gli alimentari sempre più sforniti, alcuni chiusi da tempo, persino Conad faticava e Lidl apriva a giorni alterni. Tutti avevano fatto provviste per tapparsi in casa, ciascuno nella propria stanza chiusa, ogni tanto un saluto mozzato, uno scotch di troppo, una sega sui porno, un suicidio liberatorio. Storie trovate ai margini del bosco, da cacciare via e dimenticare in fretta.