un racconto di Aurora Tamigio

 

Dicevano di fare attenzione, di chiudere le finestre, di uscire quando il sole era alto, nelle ore centrali della giornata, ma solo se del tutto indispensabile. Al telegiornale non si parlava d’altro: attenzione quando guidate, soprattutto la mattina presto e al tramonto; attenzione in pianura e lungo le strade costiere. Fate attenzione, donne giovani e anziane. Si raccontavano storie catastrofiche per tenere alta la guardia. La Precipitazione, che apriva tutti i telegiornali, portava via le donne. Oggi c’erano, domani sparivano senza tornare più. Dall’inizio dell’estate, in città già venti risultavano disperse, e la gente, i padri e i mariti e i figli disorientati, affollavano i commissariati. La questura di via Padova era al limite del collasso, i poliziotti denunciavano turni da trenta ore. Ma non bastava. Dove fossero quelle donne, nessuno lo sapeva, ma tutti davano la colpa alla Precipitazione.

Enrica spegneva la televisione, ma suo marito Berto non c’era modo di silenziarlo. Ogni notizia, ormai, gli provocava panico e una logorrea irrazionale: «Hai presente la signora Pia, del sesto piano? Saranno state le otto, non più tardi, quando è sparita: i nipoti, li ho visti giù in cortile ieri, sono disperati. E la ragazza della farmacia? Ha lasciato il marito con i due figli».

La signora Pia, la farmacista: ma chi sono, chi le conosce. La gente si appiglia a qualsiasi cretinata pur di non risolvere i fatti suoi.

«Berto dammi tregua, ho spento la televisione apposta».

«Dovevi lasciarla accesa, invece, è meglio saperle le cose».

L’allarme Precipitazione era stato diffuso a giugno e durava da tutta l’estate. Enrica lavorava da casa, traduceva libri per un editore di Roma e anche prima detestava spostarsi per lavoro; restare tutto il giorno alla scrivania non rappresentava poi un sacrificio per lei. Però era una questione di principio. Chiudere le donne a casa, che follia. E per cosa, perché l’ansia collettiva aveva preso il sopravvento. Il risultato era una città deserta, dove si muovevano solo i maschi. Maschi, per giunta, completamente impazziti. Poteva testimoniarlo Enrica che questa storia bruciava i cervelli: a furia di stare nell’aria viziata, per esempio, Berto ormai sragionava più del solito.

Peggio di quando l’anno scorso ha deciso di tagliarsi la barba.

Dio, che pena. Sembrava un bruco.

 

Mercoledì, a ora di cena, Enrica si era scocciata.

Aveva deciso: le finestre andavano aperte, anche solo dieci minuti, per fare passare aria. La Precipitazione, catastrofismi a parte, lei non l’aveva vista mai; al contrario, si stava accorgendo dell’effetto soporifero che stare rinchiusi aveva dentro casa e nella testa di suo marito.

«Chiudi, sei matta? Pare che adesso anche la portinaia non viene a pulire le scale da una settimana. Povera donna».

«Quella non aveva voglia di lavorare prima, figurati ora. Spostati, fammi aprire. Mi sento soffocare».

«Mettiti almeno la filtrante. Te la vado a prendere».

«Berto, santo cielo, faccio passare un poco d’aria e chiudo. La bambina deve respirare e anche tu: guardati. Sei grigio».

Giulia era stata spedita nella sua stanza.

«Mi chiudi dentro di nuovo, papà?».

«Amore, la mamma ha deciso di comportarsi da incosciente».

«Ma sono stata rinchiusa tutto il giorno».

«Lo so, ci vuole pazienza. Tra poco ti vengo a prendere e ordiniamo la pizza con le patatine». Chiusa sua figlia dietro la porta, Berto si era accasciato sul divano. Tanto aveva insistito che lo avevano rifoderato di nero, così non si vedono le macchie, trecento euro. «Io non ce la faccio più con te, Enrica».

Le imposte della finestra si aprivano verso l’esterno e, quando le aveva spalancate, l’aria era riuscita a rilassarle l’espressione. Il cielo era arancione e blu da togliere il fiato.

«Guarda che colori. Chiama Giulia, dai».

«No, io mia figlia non la faccio venire con questo cielo».

«Col cielo del tramonto?».

«Enrica non scherzare. È una cosa seria, lo vuoi capire?».

Di quella cosa che entrava dalla finestra, la Precipitazione, si diceva di tutto. Somigliava a una nebbia, ma era diversa: nella stanza entrava puzzo di nafta, dicevano, l’umidità appiccicava i capelli come scirocco e il fiato si seccava in gola. Ma nel loro soggiorno non era successo niente del genere. Non aveva soffiato il vento del sud, né il viscido grecale; dalla finestra, anzi, una brezza fresca di inizio settembre aveva spinto avanti una nuvola soffice come spuma. Giunta sul davanzale, non si era smontata ma aveva continuato a muoversi come una cosa dotata di vita. La nuvola aveva messo dentro prima il muso e poi il corpo tutto, si era allargata come se fosse dotata di braccia e polmoni. Nel soggiorno, l’aria era diventata frizzante. Enrica si era sentita effervescente anche lei, con il naso che le pizzicava come quando ci finisce dentro l’acqua, e aveva starnutito. Alle spalle suo marito era pronto a rimbeccarla.

«Te l’avevo detto di mettere la filtrante».

 Quando si era voltata, Berto aveva una folta barba nera, le spalle massicce di un lupo e dieci anni di meno. Era di nuovo giovane, non bello, ma di quelli che ascolti ogni cosa esce dalla loro bocca.

«Adesso è colpa mia? Te l’avevo detto di usare qualche cosa».

«Ma se hai giurato che prendevi la pillola».

«Sì va bene, ma a volte me la scordo».

 

Enrica gli guardava la barba, le spalle, tutto il resto. Ma intanto la faccia e le labbra di suo marito erano scomparse: non le vedeva né ricordava, la Precipitazione si era messa in mezzo. Era fatta di vapore bianco e soffice, che trasformava le immagini in ricordi e le memorie in richieste insistenti di una vita precedente.

«Berto?».

«Enrica, chiudi questa finestra».

«La vuoi smettere di darmi ordini e stare ad ascoltare quello che ho da dirti?»

Berto si era ammutolito, guardando la foschia che riempiva gli occhi di Enrica.

«Sei strana. Mi fai preoccupare».

«E di che ti preoccupi? È solo una nuvola. Io, invece, sto cercando di parlarti. Sono stufa di non avere mai voce in capitolo in questa casa, di sentirti dettare legge pure con la bambina. Lo vuoi capire, o no, che ci soffochi. Ci manca l’aria. Ti attacchi qua Berto, lo vedi dove, proprio qua, qua alla gola: finirò per strozzarmi».

«Basta così: accendo il depuratore, qualcosa farà no? Tu fai uscire questa nebbia, prima che Giulia entri nella stanza».

Non è nebbia, Berto, è una nuvola. Ma come te lo devo dire, come te lo devo dire che non ti ho amato nemmeno per un minuto. Tra di noi c’è stata una sera soltanto, in tutta la vita, ed ecco cosa ho ottenuto in cambio. Bell’affare. Ci sei ancora? Non ti vedo più e non so cosa ci faccio qua. Sei invecchiato peggio di me, te ne sei accorto. Quale pazzo squilibrato compra un divano blu per rifoderarlo sei mesi dopo di nero. Con questa faccia tutta rosa e nuda, poi, mi sembri un verme. Inoltre, Giulia non lo so nemmeno se è figlia tua. Mi pareva che quella sera lo avessi tirato fuori subito.

 

Enrica aveva inalato a piene narici, come gli aveva insegnato il terapista da cui andavano lei e Berto una volta a settimana.

«Lei si innervosisce troppo e troppo presto, Enrica. È sotto stress, si vede. Invece a noi occorre che stia calma».

Ho sposato un coglione e lui mi dice di stare calma?

«Ecco, faccia come me: inspiri, espiri. Inspiri, espiri. Inspiri, espiri. Da brava, così».

Enrica si era sentita scendere la Precipitazione dentro la laringe, per poi passare nella trachea, inondare bronchi e polmoni. Somigliava all’aria che si respira in spiaggia ad agosto, ma non era soffocante, anzi: da quel calore si veniva rassicurati, abbracciati, coccolati. Forse Berto era ancora seduto sul divano, se il divano c’era ancora. Enrica aveva preso posto accanto a lui con la nuca appoggiata contro il poggiatesta, il naso proteso al vapore, tutto il corpo allungato a farsi avvolgere dalla nuvola. E mentre il vapore la avvolgeva e la Precipitazione formava sopra di lei, sopra di loro, una cappa grigia e poi nera e ancora più scura, aveva iniziato a piovere, da sotto a sopra, nel verso contrario. Ma lei non ci trovava nulla di strano: per una volta, nel soggiorno di casa sua, si sentiva a suo agio.

«Enrica. Enrica ti senti bene. Enrica mi senti. Enrica rispondimi, apri gli occhi, parlami. O cielo, chiamo un medico. Enrica, resta con me, resta vigile, guardami. Enri-».

 La voce di Berto era scomparsa. Lui era sparito. La stanza non esisteva più. C’era solo Enrica, sul divano di cui non doveva più preoccuparsi del colore, sotto i colpi battenti di una pioggia al rovescio che sollevava la sua pelle goccia dopo goccia e la faceva evaporare via da lì. La carne di Enrica, vapore nel vapore, rimpolpava la nuvola che la divorava a morsi, senza dolore però. Non troppo. Certamente meno che andare dal terapista per imparare a inspirare, espirare, inspirare, espirare. La precipitazione diventava grande, sempre più grande. Lo aveva saputo dal primo momento che non c’era da avere paura, che erano tutte sciocchezze: avrebbe dovuto aprire prima la finestra, come avevano fatto la signora Pia, la farmacista e pure la portinaia. Donne furbe, loro.