un racconto di Marco Frigerio

 

Per sfruttare al meglio la tassa di circolazione Pino, ventott’anni, impiegato presso l’Ordine dei Farmacisti di Mantova, acquistò la sua prima automobile lunedì due gennaio millenovecento cinquantasei.

Pagò la vettura, una splendida Giulietta rosso alfa (una berlina da cinquantatré cavalli, centotrentasei chilometri ora, cambio al volante, interni beige con due comodi divanetti e un capiente bagagliaio da 225 decimetri cubici) con l’eredità della mamma, morta nell’aprile del millenovecento cinquantacinque.

Ritirata la vettura, fece un breve giro trionfale per le vie del centro, poi si recò a casa della fidanzata dove, con sua sorpresa, fu accolto con grande freddezza. Non solo Fulvia non mostrò alcun interesse per le gite domenicali che Pino le proponeva per visitare le bellezze dei dintorni – spingendosi, magari, fino al Garda, proposta che lei definì “noiosa e inutile.” Ma fu addirittura cacciato a male parole dal padre, con l’ingiunzione di non presentarsi mai più a sua figlia “con simili volgari offerte.”

Lui allora ipotizzò semplici passeggiate fuori porta prima di cena, quando uscivano assieme dall’ufficio. Ma il padre urlò perentorio che sua figlia non sarebbe mai salita su quell’auto «color delle fiamme dell’inferno», la cui straordinaria velocità, era ben noto, produceva sensuali vertigini. Che mai e poi mai, «prima del matrimonio!»

Fu così che Pino si ritrovò a gustare da solo il piacere sottile della guida. Nei primi giorni di possesso, condusse la sua nuova automobile con grande cautela, lungo le strade asfaltate attorno alla città.  Tra un’eccezionale nevicata e un freddo siberiano, visitò il Santuario delle Grazie, il bosco Fontana, sostò per un caffè alla trattoria ai Quattro Venti, e parcheggiò con grande orgoglio al centro di piazza Sordello. Passeggiò quindi sotto i portici, dalla chiesa di Sant’Andrea fino al teatro Sociale, per sfoggiare i guanti forati da guidatore provetto, scambiando saluti con i conoscenti: la sua era la nona Giulietta che sfrecciava per le strade della provincia. Passeggiando notò anche, con piacere, che diverse signorine lo scrutavano di sottecchi, lo sguardo nascosto dietro la tesa del cappellino nuovo: nonostante la freddezza di Fulvia, la Giulietta mostrava interessanti effetti collaterali. 

Domenica sera ricoverò la macchina nella vecchia rimessa degli attrezzi agricoli, ora trasformata in officina-garage. Per tutto il giorno aveva sofferto il traffico caotico e inesperto delle feste, ed ora era stanco. Tolse tutta la neve accumulata, pulì il parabrezza, lustrò la carrozzeria, rabboccò l’olio, smontò le catene da neve e regolò la pressione dei pneumatici.

Era orgoglioso: né la nevicata del secolo, né i dodici gradi sottozero erano riusciti a fermare la sua Alfa. Dopo cena fece due conti. In sette giorni aveva percorso centodiciotto chilometri – non credeva fossero così tanti!

Calcolò il consumo di gomme, freni, olio e benzina, e solo a quel punto impallidì. Guidare gli piaceva molto, ma costava decisamente troppo. 

Stese sul tavolo la cartina della provincia, con la matita rossa cerchiò la sua cascina appena fuori città. Misurò la strada percorsa confermando il dato del contachilometri: centosedici. Troppi. Poi scrutando la carta, come un esploratore africano studia le piste degli animali selvatici per cercare nuovi sentieri, vide certe stradine segnate come un filo bianco, che si muovevano sinuose per la campagna, unendo molto più velocemente le località visitate. Misurò il percorso lungo queste stradine: settantadue chilometri. Fantastico! 

Lunedì, dopo l’ufficio imboccò la più vicina a casa. Il viottolo tortuoso, così affondato nella neve che si intuiva appena, seguiva il contorno dei fossi e dei campi. I fari fendevano a fatica il buio che scendeva come caligine tra lui e il mondo. Mentre guidava con grande attenzione, curvo sul volante, la fronte quasi appoggiata al parabrezza, vedeva casupole sbucare dal nulla. Procedeva a passo d’uomo, sfiorava fattorie coperte di neve e sentiva l’aprirsi preoccupato degli scuri serrati per la notte, che sbattevano con fragore contro muri invisibili, accompagnati da urla roche di voci minacciose: “Chi sei? Che vuoi? Se torni ti sparo!”

E poi intuiva certe figurette ferme agli incroci, che al suo passare ridevano allegre, scansandosi e gettando neve sul parabrezza posteriore.

Tornato, parcheggiò in garage, scrisse su un taccuino il valore del contachilometri, in cucina verificò il percorso: solo otto chilometri per le stradine bianche, invece dei tredici sull’asfalto. Perfetto, adesso si poteva permettere le sue gite serali. 

Così iniziò a girare per quei viottoli sterrati che apparentemente non portavano a nulla, sbucando dietro a una chiesetta abbandonata o davanti a un granaio innevato. Si abituò a sentire le voci irate gridargli contro e a vedere quelle immagini morbide in attesa ai crocicchi, ferme nel freddo e nella neve come se nulla fosse.

Non andava da nessuna parte, ma i conti tornavano. Girava e girava, e i conti tornavano sempre. Tutto gli piaceva molto: la campagna innevata e gelida, il rumore sicuro delle catene che procedevano salde, le cappelle votive agli incroci, o nascoste dietro a una curva, il frusciare dei rami disturbati dal suo passare che lasciavano cadere la neve che li copriva. E il silenzio della notte. Girava, girava e il suo cuore gioiva. 

Una sera si fermò poco prima di un bivio. Si era ormai a marzo, la neve era sciolta ed ora le sue gite non si svolgevano più nel buio totale, ma venivano avvolte da una penombra suadente e tiepida.

Una contadina alta, mora, due braccia belle forti, diverse rughe sul volto scuro: “Ho steso la coperta dietro al cespuglio. Scendi che ci andiamo. Costo poco.” Pino restò imbambolato. Certo voleva andare con lei sulla coperta, ma non gli garbava lasciare la macchina incustodita.

“La terra sarà ancora gelida e bagnata.”

“Sotto la coperta ho messo una tela di sacco. Vedrai, con me starai al calduccio. E poi io sono veloce.”

“L’hai mai fatto in macchina?”

“E chi c’è mai salita, su una macchina?”

“Allora entra. Qui sul divanetto staremo più comodi e belli caldi.”

Così Pino trovò un nuovo motivo di girare per quelle stradine bianche che apparentemente non portavano a nulla, se non, forse, proprio a quelle ombre in attesa presso i cespugli.

Dopo un mese, rifece i conti daccapo: non tornavano più. Per quanto stesse attento ai chilometri percorsi, la nuova spesa eccedeva il risparmio in olio, gomme, freni e benzina. Con scrupolo centellinò i suoi incontri; chiese persino uno sconto visto che non usava la coperta, ma senza grande successo.

Aveva trovato anche delle donnine meno costose della contadina mora, ma pur avendo eliminato anche tutte le soste per un caffè, la somma finale restava troppo alta.

 

Pino aveva pagato la tassa di circolazione per il primo trimestre, così la sera del trentuno marzo chiuse la macchina in garage e andò all’Automobile Club a comunicare la sua decisione di non circolare per il resto dell’anno e quindi di non pagare le tre rate rimanenti. Gli spiegarono che sì, questo era permesso, ma che avrebbe dovuto rendere impossibile la circolazione del veicolo “anche a sua insaputa, come, per esempio, in caso di furto”, ovvero in pratica doveva togliere le quattro ruote e appoggiare il mezzo su altrettante pile di mattoni.

La sera stessa la Giulietta troneggiava su quattro muretti a secco, mentre cerchioni e pneumatici venivano stivati con cura in fondo al garage.

Certo era che Pino, girando per la provincia con la sua Giulietta nuova, oltre al piacere di vagare per i campi ammirando la natura e le stagioni, godendo nel visitare chiese e borghi lontani, aveva scoperto la frenesia degli incontri sul divanetto imbottito.

In precedenza, durante il periodo della leva, aveva già sperimentato qualche incontro sulle coperte dietro i cespugli, trovando che c’era sempre troppo umido, i rametti secchi lo pungevano ovunque e il suo sedere si raffreddava molto. Nulla di tutto ciò accadeva sul divanetto della Giulietta.

Verso metà aprile andò in bicicletta fino a un crocicchio non troppo lontano. Dopo una mezz’ora, una contadina con una gran borsa piena di verdura suonava alla sua porta, scrutata da capo a piedi dagli occhi attenti delle cascine vicine.

La macchina sulle quattro pile di mattoni non le apparve abbastanza stabile, così si rifiutò, offrendosi comunque sul tavolo di marmo della cucina con generosità e soddisfazione personale ed economica, mentre Pino non riuscì a dissimulare un certo disappunto per il giaciglio così poco moderno. 

Il giorno seguente, Pino ricevette la visita di un vigile che veniva lì fin dalla Questura di Mantova. Parlarono a lungo di una denuncia per atti osceni che i suoi vicini stavano preparando.  

“Ho comprato solamente patate e coste. Di cosa parlano?”

“Formalmente lei può anche avere ragione, ma le suggerisco di stare più attento. Di non fare mai alcun rumore e soprattutto di non dimenticare aperti gli scuri delle finestre!”

Il vigile inforcando la bicicletta per tornare in città soggiunse: “Dica loro di arrivare sempre con una borsa ben gonfia di verdure, che poi lei comprerà. La borsa deve risultare floscia quando escono e, mi raccomando, che i vicini vedano la differenza.”

L’intromissione dei vicini nella sua vita privata non turbò affatto Pino: invece di comprare le verdure al mercato, le riceveva a casa e a un prezzo molto conveniente. I conti tornavano a suo vantaggio e i vicini non potevano farci nulla. 

Quello che veramente lo preoccupò, fu lo scoprire che tra le donnine dei crocicchi si era sparsa la voce che andare da lui fosse pericoloso. Non certo per i vigili o per la promessa di una denuncia, ma perché Pino di letto, cucina o tappeto non voleva saperne: solo il divanetto dell’auto. Auto che sarebbe sicuramente rovinata a terra per una mossa improvvisa, un sobbalzo eccitato. E la malcapitata si sarebbe potuta fare molto male, persino spezzarsi un braccio o una gamba. Così quasi tutte le donne, pian piano si rifiutarono di portargli la loro borsa di verdure.

Pino sapeva bene che la soluzione più semplice era rimettere le ruote alla Giulietta e tornare a girare per le strade bianche, ma avrebbe dovuto pagare la tassa di circolazione per il trimestre, e si era già quasi a maggio e avrebbe pagato tutto aprile per nulla. Smaniava, ma non sapeva che fare: le donne gli proposero di tornare tra i cespugli, gli ricordarono il tavolo della cucina e sospiravano parlandogli del letto di casa. Il tutto sempre condito di verdura fresca. Ma nessuna proposta gli parve accettabile, per scomodità o per rispetto della casa materna, così Pino continuò a smaniare, restando alla fine anche senza insalata.

Finché, una sera di fine maggio, mentre rimpiazzava la campanella dell’ingresso che nottetempo qualcuno aveva rubato, vide una bicicletta carica di verdure appoggiata alla siepe della cascina di fronte: sul portapacchi una grossa sporta da cui spuntavano coste e biete. Poi una ragazza uscì quasi correndo dal vialetto della casa. Scacciata dalle urla della padrona ma imperturbabile, prese la bicicletta per il manubrio e la spinse a mano fino a casa di Pino, cantando sottovoce.

“Grazie, ma non mi serve nulla. Ho fatto la spesa al mercato solo ieri sera.”

“Bene. Io mi chiamo Rosa e voglio ugualmente mostrarti la mia verdura. È fresca e profumata.”

Rosa trascinava la sporta con una certa fatica. Era piccola, castana chiara, un vestitino blu stinto con piccole margherite bianche, i piedi nudi ma decisamente puliti. Era molto diversa dalle contadine che aveva incontrato sinora, non era cotta dal sole, né graffiata su gambe e braccia: le sue mani spiccavano bianche sul verde delle coste, senza ombra alcuna di calli o tagli. Gli occhi, profondi e allegri, gli sorridevano sfacciati, senza riuscire tuttavia a cancellare completamente una titubanza, o una speranza non bene nascosta. D’altra parte, non sembrava neppure una delle ragazze che incontrava in ufficio, così smorte e affettate. Non gli ricordava nessuno che avesse conosciuto prima.

Dalla soglia di casa, Pino ripeté che non poteva comprarle nulla, che non voleva nulla da lei. Lei entrò in casa superandolo, poggiò la sporta su una sedia, si voltò e gli sorrise: “Neppure portarmi sul divanetto della tua macchina?” Lui la guardò stupito.

“Tra noi, la tua storia è quasi una favola. Io farò piano, senza sobbalzi. Vedrai, ti troverai bene con me. Sarò leggera e suadente come la risacca di un mare calmo.” Quando dopo un po’ lei uscì con la sporta vuota, Pino era ancora estasiato, immobile nell’equilibrio instabile del garage.

Da allora i vicini la videro arrivare due volte a settimana con la bicicletta carica di cavoli, broccoli, fagioli, lattuga, e andarsene via dopo aver venduto tutto.

Senza che Pino quasi se ne rendesse conto, la sua vita iniziò a ruotare attorno alle visite di Rosa e alla lentezza felina con cui lei si muoveva. Senza mai una scossa, senza mai uno scatto, mai un sussulto rischioso per la paura di rovinare a terra. Paura che trasformò magicamente i loro incontri, con l’eccitazione che saliva all’apice. Saliva e saliva senza mai fermarsi, con la lentezza e la foga della marea che, come lei diceva, cresce e cresce. Costante, inesorabile. Inarrestabile.

Poi fu nella grande calura di luglio – lei gli portava meloni e angurie – che Rosa, davanti alla prospettiva dell’enorme cielo bianco di agosto, gli propose di rimettere le ruote alla Giulietta per darle vita e andare al mare una domenica.   “Sarei gratis per tutto il giorno”, aggiunse sorridendo. “Davvero?” Lei continuò a guardare il tettuccio dell’abitacolo senza rispondere.

Dopo cena, Pino fece i conti: tra benzina e tre mesi di tassa di circolazione (con il mese di luglio, già quasi andato), nonostante un’intera giornata gratis, non sarebbe andato in pari.

Certo gli mancava molto il piacere di guidare la macchina. Sarebbe stato bello tornare a vagare tra i paesi e i campi lungo le stradine dimenticate, finalmente con tutti i finestrini aperti, per poi accelerare sullo stradone, sollevando una nube di polvere e frenare di colpo lasciando un solco profondo. E poi magari provare una nuova donnina, ogni tanto.

La volta dopo Rosa – mentre si muoveva sul divanetto, impercettibile e irresistibile – sentì che lo stava perdendo, così scese guardinga, lasciandolo lì a russare piano.

Andò in cucina, preparò la cena per due e attese in piedi di fianco al tavolo. Si era rimessa il vestitino stinto e si era pettinata i capelli. Aveva appoggiato un fiore nella scollatura e infilato delle ciabattine nuove. Quando lui entrò in cucina, lei non si mosse. Lui si sedette e iniziò a mangiare la minestra. Lei gli sorrise.  Continuò a servirgli pietanze, e infine sparecchiò.

“Tu non mangi? È tutto molto buono.” Lei si sedette al suo fianco, si servì una scodella di minestra e la mangiò. “Adesso lavo i piatti e poi vado”. Sulla soglia si voltò: “Tutto gratis, verdura e me. Sempre.” Lui non si mosse, allora chiudendo la porta lei mormorò: “Così ritornerai a guidare, con i soldi risparmiati.”

Lui restò a guardare il buio della notte, fece i conti a mente e vide che stavolta tornavano benissimo. Poteva guidare fino a cento chilometri alla settimana.

Appena convennero sulla data del matrimonio, lui corse a pagare la tassa di circolazione, lei a mettere le pubblicazioni. Rosa gli promise, tra l’altro, una notte speciale, uno sfolgorante addio al celibato, nella macchina ritornata finalmente sulle sue ruote.

Partirono al crepuscolo, fermarono l’auto in un pioppeto lungo il Mincio e si sdraiarono sul divanetto posteriore.

Finalmente Rosa, senza la paura di cadere dai mattoni, si espresse al suo meglio seguendo i propri gusti. Scosse, sobbalzò, saltò, si rivoltò, agguantò, abbracciò, strinse e spinse. La Giulietta rispondeva docile, assecondando i movimenti della ragazza: sembrava quasi che volesse unirsi a lei in quel gioco allegro, con tutte le sue molle, gli ammortizzatori e le sospensioni.

Pino, senza fiato, si chiese se sarebbe riuscito a reggere a tanto, e se lui le sarebbe stato sufficiente. Lei lo vide perplesso, sorrise dolce, lo baciò sulle labbra sussurrando: “Saremo come noi vorremmo. Risacca o tempesta.”

Le voci di paese dicono che il matrimonio riuscì molto bene, che Pino e Rosa sono proprio una bella coppia, e che, con sorpresa di tutto il paese, nessuno dei due tradì mai l’altro. “Per lo meno per quel che se ne sa”, aggiungono acide le vicine, che in fondo non hanno ancora perdonato a Rosa di non essere mai caduta da quel divanetto.

Certo è che dopo il matrimonio la Giulietta tornò subito sulle sue ruote di mattoni, e che per molti anni dal garage continuarono a uscire rumori sottili e armoniosi, che presero la forma di tre bei figli.

Certo è anche che Pino un vizio ormai l’aveva preso, e che non riuscì più a toglierselo: non pagò mai più la tassa di circolazione – neppure quando, per i quindici anni di matrimonio, marito e moglie si regalarono una comodissima Citroen Pallas DS, automobile dalle spettacolari sospensioni oleopneumatiche.