un racconto di Giorgio Baiocco

                                               

                                                                                    Andante – Adagio

Aveva iniziato come sempre a scomporre la sinfonia con lo sguardo. Una pratica a prima vista impossibile per molti, ma in cui ormai era diventato abilissimo, grazie al sofferto allenamento di anni di concerti. Ricordava ancora il momento della scoperta di questa sua singolare capacità, quella sera in cui si era trovato a pensare, all’improvviso, che ciascuna delle note che lo investivano in modo così acuto e invadente dovesse pur avere una precisa origine all’interno della sala, e aveva deciso di risalire ai diretti responsabili. Aveva iniziato a fissare con insistenza un violinista tra tanti, scelto a caso, mentre si agitava nello sforzo frenetico di estrarre suoni dal suo strumento. Si era concentrato sulle effe, le aperture a forma di graffio da cui i suoni, amplificati dalla cassa, si riversano all’esterno pronti per l’assalto. Poi aveva spostato lo sguardo su quella piccola lama di legno d’acero, una macchia più chiara del resto dello strumento, che trasmette le vibrazioni dalle corde alla cassa. Infine, come si risale un corso d’acqua fino alla sorgente, le sue pupille si erano messe a seguire rapide ogni punto di attrito tra l’archetto e le corde, tra quel fascio di crini di cavallo maschio e lo strato metallico delle corde stesse, che nasconde un’anima di budello di maiale, come se a fare rumore fossero proprio versi di animali costretti allo scontro. Così facendo, alla fine era riuscito a isolare il suono di quel solo strumento, mentre tutti gli altri smettevano gradualmente di dar voce alla banda di ventriloqui vestiti a festa. Era stata anche per lui una sorpresa, e non si aspettava soprattutto che quella voce, una volta resa singola dall’azione combinata di vista e udito, potesse addirittura risultare meno spiacevole che nella baruffa orchestrale. Come se, con una buona dose di sforzo, si potesse ancora trovare nel mucchio qualcuno o qualcosa da salvare. Da allora, era sempre così che iniziava a distrarsi, concentrandosi. Per salvare se stesso dalla noia, e – perché no – riscattare un fortunato musicista dall’uguaglianza.

Non avrebbe mai cominciato a fumare seriamente. Se l’avesse fatto – pensava – avrebbe perso quello che era il vero e irrinunciabile piacere di ogni sigaretta: l’effetto passeggero della prima boccata di fumo, quel lieve giramento di testa, lo sbandamento di un attimo, che le faceva chiudere gli occhi. Poi, la corsa ai ripari: bastava la scossa dello sforzo per mantenersi in piedi, ed ecco che subito ripiombava in quello stato di controllato torpore che ormai accompagnava ogni sua giornata, ricordandosi, con un certo compiacimento, delle incredibili capacità di dominio su se stessa di cui era sempre stata dotata. Si concedeva ormai rare prime sigarette, sempre sola, perché era troppo rischioso trascorrere quei momenti di abbandono a portata dello sguardo di altri. Soprattutto, cercava di non fumare mai in prossimità di un concerto. Anche quella sera non era stata da meno al suo proposito. Anche quella sera non provava niente. Tempo prima, una Decima di Mahler sarebbe stata di per sé un evento abbastanza eccezionale da imporle il massimo dell’abbandono e del piacere. Ora, non più. La solitudine aveva rovinato tutto, niente la faceva più sentire viva e partecipe, nessuna musica la coinvolgeva ed emozionava. Nulla che non accadesse nel breve lasso di tempo in cui svaniva l’effetto della prima sigaretta sembrava avere più su di lei alcun effetto. Per questo era un trucco da usare con cautela, perché rischiava di non durare per sempre, e se quell’effetto fosse svanito, un giorno, di punto in bianco, allora non avrebbe avuto altro, si sarebbe ritrovata spenta per sempre. 

 

                                                                                          Scherzo

Il secondo movimento delle sue distrazioni prevedeva solitamente una scrupolosa serie di operazioni di misura: iniziava portandosi con discrezione la mano destra all’altezza del viso; avvicinava poi l’indice alla tempia, il pollice allo zigomo, e facendo scivolare il primo lungo l’arcata del sopracciglio e il secondo lungo la linea dell’occhiaia, li portava, quasi a toccarsi, di fronte all’occhio destro. Chiudeva il sinistro, e, mettendo a fuoco col solo occhio aperto, regolava la distanza della mano dall’occhio e dei polpastrelli tra loro, così da tenere in prospettiva una figura scelta tra le due dita, e stabilire una sua unità di misura immaginaria. Lo sfarzoso lampadario del teatro, ad esempio, poteva essere lungo tre o quattro direttori d’orchestra; la distanza tra i palchi di due ordini successivi una testa e mezzo della signora cotonata seduta tre file davanti a lui; e così via. Ogni volta, lo sforzo di discrezione iniziale era vanificato man mano che si lasciava prendere dalla foga della misura. Un tic, per gli spettatori che gli erano seduti accanto, che inizialmente sbuffavano, e si rassegnavano poi compatendo quel pover’uomo tormentato da mosche immaginarie. Il passatempo da concerto di quell’idiota di mio marito, per lei, che sapeva che di tic lui non ne aveva mai avuti.    

Aspettava i suoi momenti seduta, la schiena dritta, nel suo elegante abito nero, tutta l’attenzione di cui era capace rivolta al direttore d’orchestra, a una decina di metri da lei. Dietro di lui, volti indistinti di spettatori, teste maschili attaccate a colletti bianchi con un nodo di cravatta scura, e colli femminili chiari e scoperti, a sorreggere chiome più o meno colorate. Per anni, specialmente all’inizio delle sue esibizioni in orchestra, aveva cercato di cogliere in quei volti gli stessi fremiti e le stesse scosse che la musica provocava in lei. Quell’esercizio di empatia l’aveva resa così abile che si era convinta che nulla le potesse essere nascosto, nessuna emozione o pensiero che, durante il concerto, transitasse in quelle teste a portata del suo sguardo. Come se i suoni, le note, le vibrazioni dell’aria, riempiendo la sala, finissero per stabilire connessioni intime tra tutti i presenti. Ma poi questo pensiero aveva preso a tormentarla: se era in grado di capire così tanto dal volto di quegli sconosciuti, allora anche il suo rischiava di essere per loro un libro aperto, uno spartito in cui chiunque avrebbe potuto leggere le note tristi e dolenti della sua vita. Non poteva più accettare di sentirsi così scoperta e vulnerabile, non ora che era rimasta sola. Piuttosto che mostrare a tutti la sua disperazione, meglio imparare a non provare più nulla – si era detta – meglio rendersi inviolabile, lasciar correre ogni emozione e andare avanti, rassicurata da un solido stato di torpore permanente, da quell’incantesimo di rinuncia che solo il fumo di una sigaretta riusciva ancora a spezzare.


                                                                             Purgatorio. Allegro moderato

Dopo aver isolato suoni e strumenti, e misurato persone e spazi, riusciva solitamente ad arrivare appena più sereno a fine concerto. Si era ormai rassegnato al suo totale disinteresse per la musica. Solo pochi giorni prima aveva trovato la spiegazione definitiva nella sala d’attesa del dentista, su una rivista di divulgazione scientifica: uno studio condotto su volontari, tutti dotati di ottimo udito, aveva dimostrato come il provare uno scarso piacere per la musica – fastidio, addirittura – derivi da una differenza specifica nell’attivazione dei centri cerebrali della gratificazione. Quella sera stessa, a cena, aveva tirato fuori l’argomento con la moglie – come se la genetica potesse scusarlo di questa e ogni sua altra pecca di marito e di uomo. Come a volerle dire – tesoro – che non poteva avercela con lui per quello che era diventato, perché il suo fallimento era scritto e prevedibile dall’inizio. Eppure lei chiedeva così poco, ormai, di non lasciarla sola in pubblico, di lasciarle una ragione per rinnovare ogni anno l’abbonamento a teatro in due. La genetica – era la stessa causa che lo rendeva uno tra tanti, uno qualsiasi, mentre assisteva inerme a uno spettacolo in cui nessun musicista, da solo, avrebbe potuto rimpiazzare tutti, e neanche il direttore d’orchestra – che aveva un bel vantarsi del suo ruolo di uomo solo al comando – poteva produrre il minimo suono agitando le mani nell’aria. La genetica, che mai come in quelle occasioni gli ricordava che né in lui, né in nessun altro, c’era niente di eccezionale – uno schiaffo sonoro collettivo che gli ricordava di non avercela mai fatta, di aver sempre e solo deluso ogni aspettativa.

Era in piedi, pronta per il colpo che avrebbe dovuto assestare sul finale. Il passaggio al suono lugubre dei contrabbassi, la vittoria di quell’anima diabolica che accompagna in sordina tutte le battute del movimento. Mentre si alternano melodie tetre e spensierate, mentre ci si illude, ascoltando il ripetersi di un motivo all’apparenza perpetuo, che tutto possa restare uguale e immutabile, per sempre. Da giovane, si era sempre lasciata impressionare da quel folto di credenze e misteri di cui era costellata la vita dei grandi del passato, compositori inclusi. Mahler stesso non era stato risparmiato: forse aveva creduto di essere sfuggito alla maledizione della nona, ma un manipolo di batteri gli aveva impedito di ultimare la sinfonia successiva. Una morte tanto più odiosa proprio perché gli aveva dato l’illusione di potersi salvare. Come per lei, un colpo inaspettato, quando più era certa che la sua vita sarebbe proseguita in duo. A nulla erano valse le piccole vittorie, la crisi superata – che misera la superstizione sul settimo anno in confronto agli altri miti. Decima, la sinfonia di quella sera, otto, i suoi anni di matrimonio, prima che la morte arrivasse a suonare il finale.

 

                                                                       [Scherzo. Nicht zu schnell]

Elegante, con il portamento fiero ma rassegnato di una condannata al patibolo in abito lungo, certa dell’ingiustizia della propria sorte. Era comparsa nello spazio di un attimo, e subito, come di riflesso, aveva sfoderato nuovamente la mano strumento per prendere quella splendida figura tra le dita. Ma stavolta non per noia o gioco, per la voglia di tenerla così, tra pollice e indice, immaginando di toccarla. Quasi avvertendo la tensione disperata che la attraversava, che risaliva lungo le pieghe del vestito nero e scendeva dalla testa sulle spalle e poi lungo le braccia nude, concentrandosi nel punto in cui le sue mani brandivano un martello, all’altezza di quel grande piatto dorato. Poi, il colpo: non più un suono che andava inseguito tra mille, ma un fragore improvviso e persistente, il boato del distacco e il rumore di una valanga che continua a farsi spazio. In quel suono era nascosta la risposta che stava cercando. In quella donna, l’abilità che desiderava così ardentemente per sé: la capacità di emergere e di dominare, di spiccare e di lasciare un segno. Quella sua aria così grave – anche essere speciali doveva essere una forma di condanna – ma lei era lì, a spalle dritte, e aveva un destino senz’altro migliore del suo. Un solo colpo ancora, e poteva cambiare tutto, la fine non sarebbe arrivata solita e lenta – la folla che si riversa fuori dal teatro mossa dalla fame, la cena e il silenzio della moglie in pizzeria, il tram verso casa, la sigaretta solo, in balcone, aspettando di trovarla già addormentata a letto. Prese a sperare forsennatamente che lo facesse di nuovo, che colpisse di nuovo il gong, con tutta l’energia di cui era capace, così forte da interrompere il concerto, da sovvertire l’ordine costituito di quel mondo di uguali e mediocri. Si sarebbe alzato, di scatto, lasciando indietro sua moglie, scavalcando file di spettatori spiazzati, l’avrebbe raggiunta, abbracciata, le avrebbe urlato piangendo tutta la sua gratitudine per avergli mostrato che sì, si poteva ancora essere unici.


                                                                       [Finale. Langsam, schwer]

Avvertiva ancora nelle mani e nelle braccia la vibrazione del gong, che tardava a smorzarsi. Non riusciva più a smettere di fissare un punto particolare della sala: quello in cui aveva visto un uomo, nello spazio di un attimo, portarsi una mano al volto, davanti all’occhio destro, per poi iniziare a fissarla, come attraverso un monocolo immaginario. Con quella lente, aveva concentrato su di lei il proprio sguardo e i propri pensieri, come si fa da bambini per bruciare le formiche con i raggi del sole. Si sentiva accaldata, scoperta, come dopo una boccata di fumo – fumo di carne bruciata – senza riuscire a riprendersi dal giramento di testa. Era successo. Una connessione intima tra lei e quello spettatore. L’aveva lasciato fare. E si vedeva ora attraverso gli occhi di lui, diversa da ciò che credeva di essere, forte e fiera del suo strumento e della sua maestria, ancora capace di grandi cose. Aveva ancora voglia di farsi guardare così. Che senso aveva aspettare – nessuno sarebbe stato lì per lei, all’uscita degli artisti, come così spesso era accaduto in quegli otto lunghi anni precedenti. Sarebbe tornata a casa, avrebbe aperto il cassetto delle prime sigarette. Scampata alla maledizione della Decima, avrebbe brindato e fumato da sola. Allora, tanto valeva picchiare ancora sul gong, ma farlo subito, con tutta la forza di cui era capace – tutto pur di attirare di nuovo su di sé quello sguardo. Poco importa come sarebbe finita – tutto pur di uscire da quel purgatorio, tutto pur di essere lei a decidere come si sarebbe concluso il concerto.