Lageri (Empty-man)

 Un racconto di Giorgio Baiocco
 

Non c’erano asana che gli riuscissero alla perfezione, e non aveva mai terminato una meditazione senza lasciarsi vincere dal torpore e dal sonno – in fondo, non ci aveva mai creduto davvero, e forse ora aveva smesso di credere in tutto. Ma su una cosa non aveva dubbi: era allo yoga che doveva l’invidiabile capacità di incremarsi perfettamente da solo spalle e schiena, alta e bassa, protezione 50 – neanche un centimetro quadrato di pelle lasciato esposto all’aumento del rischio di melanoma. Ci riusciva persino con la crema dell’erboristeria, naturale al punto da sembrare argilla, che si spalmava così a fatica – mai più – se lo diceva ogni estate – la prossima volta una Bilboa del super, piuttosto – e l’acqua del mare che diventa olio appena ti immergi, tanto le cose vanno sempre a puttane prima o poi, è solo questione di tempo. Un tumore con o senza raggi UV, una brutta caduta dal motorino. Non guidava un cinquantino da vent’anni almeno, e prima di partire aveva letto che le Cicladi sono troppo ventose, meglio la macchina, ma di guidare proprio non ne aveva voglia, per non parlare poi del parcheggio, dei graffi alla carrozzeria, batteria scarica, ruote bucate, tutto quello che può andare storto quando si va in giro in macchina, insomma. Un ricco compendio di ansie – il bagaglio più ingombrante con cui si era imbarcato, ben oltre i limiti di dimensioni e peso imposti dalle regole della compagnia low-cost, ma era da sempre così bravo a fingere sicurezza che non destava mai alcun sospetto ai controlli. “Non è mai delle cose in sé che abbiamo paura, è che pensiamo di non saper far fronte a ciò che potrebbe accadere, e invece…” – e su quel “e invece” aveva avuto l’istinto di aggredirla, ma sapeva che non ci sarebbe riuscito, la sua terapista avrebbe avuto la meglio persino fisicamente, se necessario. Per una volta quindi, pur di uscire di lì un po’ più tranquillo, aveva accettato di restare in silenzio, rinunciando a controbattere mentre si faceva ricordare che le nostre risorse sono sempre più grandi di quanto siamo portati a credere. E adesso era lì, a spalmarsi la crema davanti allo specchio, almeno una mezz’ora prima di andare al mare che così fa più effetto. Dopo una lunghissima giornata di viaggio – il volo fino ad Atene, la metro per il porto, con quel caldo micidiale, il traghetto, lo sbarco sull’isola in serata – e una prima nottata di merda – il vento c’era davvero, e si stava così bene che aveva pensato di dormire con le finestre aperte, per poi ritrovarsi a lottare tutto il tempo con zanzare e insetti di ogni genere. Anche a Paros, proprio come negli ultimi tempi a Milano, le notti seguenti avrebbe dormito barricato dentro, in una camera iperbarica di aria condizionata, alla faccia di ogni preoccupazione per il cambiamento climatico – il ronzio dello split che prende il posto del frinire dei grilli, il patio che si allaga per lo scarico della condensa, e tutto questo a 120 euro a notte – sarebbero stati 60 a testa in due, certo, non tantissimo, ma dopo quasi due anni di estenuante tira e molla Dario aveva deciso di smettere di crederci, di aspettare – lo stupido errore che gli era costato le vacanze dell’estate precedente – e di partire da solo, stavolta, e in realtà era quella l’origine di tutto il suo malessere. Era appena arrivato, e già sapeva cosa avrebbe scritto sulla recensione a fine soggiorno – le zanzariere, cazzo – la condanna di chi, a volersi dare ascolto, sa sempre sin da subito come vanno a finire le cose. 


La consegna del motorino era stata puntualissima. Come concordato via mail, un ragazzotto greco – un Dimitris come tanti altri – si era fatto trovare davanti all’ingresso dell’airbnb cicladico alle 9 di mattina. Dario aveva firmato il contratto di noleggio, ostentato sicurezza e rifiutato gentilmente sin da subito la proposta di Dimitris di passare comunque dal negozio in paese per provare un quad, tante volte avesse cambiato idea. La settimana prima della partenza aveva costruito il suo personaggio in viaggio in solitaria in un paio di gite mirate da Decathlon, attingendo in maniera più o meno consapevole a un immaginario misto di Instagram e film porno gay – occhiali da sole sportivi con lenti specchiate fucsia, pantaloni corti in mimetica con le tasche laterali, sandali da trekking neri, nulla che avrebbe messo in altre occasioni, insomma. Ma conosceva fin troppo bene i propri limiti – mascherarsi poteva essere un modo per tentare di superarli, ma per quanto bravo a recitare non avrebbe mai montato un quad con abbastanza sicurezza, e né la vacanza né la vita prevedevano purtroppo una controfigura.
Chiavi in mano, terminati tutti i preparativi, era dunque arrivato il momento di mettersi alla guida. Destinazione: Lageri beach – “la migliore spiaggia frocia di tutto l’Egeo” – tanto valeva andarci subito visto che in fondo era lì per quello. Quando si era trattato di dover prenotare in fretta, un paio di settimane prima, quel whatsapp inoltrato da amici di amici, che apparentemente le Cicladi le avevano girate tutte, era stato un appiglio perfetto per togliersi il pensiero. Come si fa a scegliere un’isola, altrimenti? Venticinque minuti di tragitto da Google maps – fattibile – consigli successivi avevano specificato che la mossa più furba era mettere come destinazione una chiesetta ortodossa sulla costa, e che da lì la spiaggia sarebbe stata facilmente raggiungibile con una decina di minuti di camminata. Né ai suoi amici né agli amici di amici responsabili del consiglio Dario aveva confessato di non essere mai stato in una spiaggia naturista. Prima di incremarsi, prima di preparare lo zaino e riempire la borraccia, si era fatto una lunga sega. Probabilmente avere un’erezione in una spiaggia gay naturista non sarebbe stato un gran problema, ma doveva mettersi nelle condizioni di avere tutto il più possibile sotto controllo. Era stanco, e voleva soltanto starsene al riparo da variabili impreviste – quanto tempo ci avrebbe messo per trovare un nuovo equilibrio, per permettersi di abbassare la guardia di nuovo?
Negli ultimi tempi masturbarsi si era dimostrata una pratica infinitamente più utile dello yoga e della meditazione. Durante il periodo della relazione con Alessandro – perché al di là ogni possibile etichetta, di questo si era trattato, di una relazione – Dario aveva preso l’abitudine di farsi una sega prima di ogni loro incontro. All’inizio era una strategia – almeno, se fossero finiti a letto, sarebbe riuscito a durare di più. Sin da subito, il poco sesso che avevano fatto era stato complicato, mai leggero e spontaneo. Dario sentiva come una specie di missione quella di dargli piacere, di scavalcare la sua barriera di insoddisfazione perenne – nel sesso, come in tutto il resto – costruita, si ripeteva come un mantra, solo per proteggersi da tutto e da tutti – gli dimostrerò che con me può essere felice. Poi Alessandro aveva iniziato a tirarsi sempre indietro. Quando nelle lunghe serate insieme abbracciati sul divano, tutte uguali tra loro, la mano di Dario scivolava verso il basso, Alessandro si innervosiva, scattava in piedi – “Non ora, dai” – e a Dario mancava il coraggio di ogni azione. Restava pietrificato, immobile, ostaggio di quel “Tra noi c’è molto di più di questo” che subito arrivava puntuale, come i titoli di coda di un film che non avrebbe mai avuto un sequel. Persino il più ingenuo degli spettatori non poteva avere alcun dubbio. – Dimmi quando, e cosa, cosa siamo allora noi, cazzo – avrebbe voluto gridare, ma non ci riusciva, e non poteva che provare a calmare Alessandro, a invitarlo a sedersi di nuovo sul divano, rannicchiarsi prima su un lato, e poi restare in attesa di un suo gesto, un segnale che gli permettesse di tornare a guadagnarsi un po’ più di spazio, più vicino, di nuovo accanto, di nuovo in contatto. Tutto, pur di non separarsi da lui. Una resa incondizionata a qualsiasi sua decisione, uno sforzo silenzioso per strappargli quei pochi sì – l’ultimo, l’isola greca, insieme, la prima estate quasi da coppia – e poi l’attesa, nella più totale insicurezza, l’impotenza e la frustrazione di vederli sistematicamente diventare no. Questo era stata, in sintesi, la loro storia. E Dario ne era uscito – o almeno così voleva – sfinito, ma soprattutto desideroso di recuperare tutta la lucidità che aveva perso. Ecco a cosa serviva davvero, masturbarsi, anche più volte al giorno – a smettere di desiderare Alessandro, diventare immune al suo odore, dover lottare soltanto con quello che restava al netto della disperata voglia di toccarlo. O meglio, a smettere di desiderare chiunque altro,  a risparmiare tempo – quante serate aveva evitato di passare in preda al desiderio di incontrare, scrollando e aggiornando compulsivamente la griglia di Grindr, prima di realizzare che bastava farsi una sega, venire subito, liberarsi di quell’impulso basso che ci rende dipendenti dagli altri, che ci fa accettare rischi e condizioni imposte, quando la verità è che possiamo bastarci da soli – che la terapista avesse in mente anche questo parlando delle “nostre grandi risorse”? Sarebbe restato col dubbio – sarebbe stato sempre troppo in imbarazzo per farle una domanda del genere.


Dario aveva imparato ad andare in motorino nell’estate del ’98, durante i mondiali. Simone, che i quattordici li aveva compiuti a inizio anno, si era offerto di fargli da istruttore di guida. Anche lui, a modo suo, era diverso da tutti gli altri ragazzi della loro età. Giocava a basket – sembrava anzi avesse scelto di proposito di disinteressarsi totalmente del calcio, al punto da essere libero dall’impegno di presenziare persino alle partite della nazionale. Quando non si allenava, passava tutto il suo tempo libero a disegnare fumetti, ed era Dario – questa la sua vocazione, da sempre – a scrivere le storie, inventare per lui personaggi e trame. Nell’ultimo periodo, Dario aveva pensato spesso a come l’attrazione fisica che provava per Alessandro gli ricordasse per certi versi quello che sentiva quando si avvicinava a Simone da ragazzo. Una vera e propria forza – qualcosa di simile alla gravità – a cui all’epoca non poteva che opporsi, sempre attento a restare a distanza di sicurezza, mantenendo l’orbita di un pianeta molto vicino al Sole, ma non così tanto da bruciare. Erano passati più di vent’anni. Era cresciuto, era andato via di casa, aveva lasciato il paese e la provincia, viveva a Milano – gli studi, nessuna grande carriera scientifica come si era immaginato agli inizi, e il noioso lavoro in un’azienda informatica, niente di unico o eccezionale – ma era diventato un uomo, e la sua più grande conquista era stata proprio la libertà di cedere, di abbandonarsi a quelle spinte mettendo da parte la vergogna, ogni volta che ne avesse avuto voglia. Era seguendo quella stessa libertà che si era avvicinato troppo ad Alessandro, fino a ritrovarsi in caduta libera – una piega ripida dello spazio tempo, un buco nero, capace di tenerlo legato a sé, di assorbire ogni sua energia, di consumarlo, fino a costringerlo a una fuga che sembrava, o forse era, presto per dirlo, impossibile. Le “guide” in motorino durante le partite dell’Italia – le strade deserte, l’aria sul viso scaldato dal sole di giugno e dall’emozione delle prime volte – erano il ricordo più bello di lui e Simone insieme. Dario che lo seguiva, che lo teneva a vista, Simone che si fermava ad aspettarlo, girando lo sguardo a controllare come avrebbe preso la curva che li separava. Una delle ultime volte, arrivati alle pendici della collina del paese, avevano lasciato i motorini e avevano proseguito a piedi su un piccolo monticello, in cima al quale sorgeva un’antenna. Da lì il paese sembrava ancora più piccolo, stava tutto in uno sguardo, tutto coperto dallo stesso segnale. – “Mi è venuta un’idea per una storia fighissima” – aveva detto all’improvviso Dario – “Ti ricordi quando la prof di fisica ha detto che siamo per lo più fatti di vuoto? Cioè, che alla fine, in ogni atomo, lo spazio vuoto tra il nucleo e gli elettroni che gli girano attorno è enorme, che sono lontanissimi tra loro? Ecco, pensa a un personaggio che la può controllare questa distanza, che poi vuol dire in pratica che può diventare microscopico o anche enorme, però con una spiegazione scientifica, non come Alice che mangia il fungo, per dire, ma poi non si rompe eh, non gli succede nulla, perché tutto cambia dimensione in proporzione, no? E magari sì, ci sono dei limiti, perché se le cariche di segno opposto si avvicinano troppo allora è un casino, e lo stesso se finisce che si allontanano troppo, tipo… perdono il loro legame, e lui si disgrega…” -. Si ricordava ancora tutto di quel fumetto mai disegnato, e soprattutto non si era mai dimenticato di essere fatto principalmente di vuoto – che non fosse proprio quello il vuoto che aveva tentato disperatamente di riempire con Alessandro? Che non fosse proprio a causa di quel vuoto che era nata in lui quella specie di ossessione? Eppure persino Empty-man – anche il nome del personaggio era una figata – lo sapeva bene quanto fosse pericoloso farsi piccoli piccoli di fronte all’altro fino a scomparire, per compiere una missione impossibile, a rischio della propria vita. Simone era stato entusiasta della storia – mentre scendevano verso i motorini avevano continuato a parlare di Empty-man, di come disegnarlo, dei cattivi con cui avrebbe dovuto lottare – e poi una volta ripartiti si era rimesso in testa, a fare strada, sempre una decina di metri avanti. Dario non avrebbe mai provato a colmare il vuoto tra loro due, invece, fatto di non detti, di sentimenti inconfessabili per un adolescente di provincia innamorato perso di un suo compagno di classe. E se erano davvero quelle le uniche alternative possibili – mantenersi separati, non tentare, non far accadere mai nulla, oppure accorciare troppo le distanze, fino al collasso, all’annichilazione – allora non era meglio tentare la terza via, espandersi a dismisura, in un furioso gesto di rivalsa finale, occupando tutto lo spazio possibile?  


Era andato tutto liscio. Un po’ di tachicardia alla partenza, un paio di frenate e accelerate troppo brusche all’inizio – giusto il tempo necessario per familiarizzare con il sistema di forze che regolava il moto. Era assodato – sapeva ancora guidare il motorino – forse lo stesso principio per cui non ci si dimentica mai come si va in bicicletta, o forse davvero merito di Simone, che era stato un bravissimo istruttore. È così imprevedibile, a volte, il segno che ci lasciano gli altri. Il sentiero che partiva dalla chiesetta era stato breve e semplice, e Lageri beach era stupenda. Dario ne aveva già percorso un lungo tratto, avanti e indietro, buttando l’occhio su tutte le piccole chiazze d’ombra dei cespugli. Sin da subito, aveva sentito gli sguardi degli uomini della spiaggia premere sulla sua pelle come raggi del sole insistenti – nessun filtro, nessuna crema l’avrebbe protetto, sentiva già caldo – dov’era il vento, quando serviva? Senza accorgersene, aveva cercato di tenere il conto dei bagnanti – una quindicina di uomini e tre o quattro donne, tutti nudi – le coppie spesso in insediamenti da professionisti, tende, o capanne costruite con rami e corde per dare forma solida alle fantasie tribali di teli colorati, i singoli – solo uomini – sdraiati a ridosso della vegetazione bassa, per lo più supini, cazzo bene in vista e al sole, appoggiati sui gomiti a sollevare il torso. Teste all’ombra e in osservazione – di una in particolare Dario aveva colto un lento movimento di rotazione, come quello della luce di un faro o di una sonda radar, che l’aveva seguito finché non si era fermato, aveva appoggiato a terra lo zaino, tirato fuori l’asciugamano e iniziato ad allestire la sua tana nella minuscola ombra dell’unico arbusto rimasto disponibile. A poca distanza, un ragazzo biondo, bellissimo, capelli lunghi e ricci che cadevano bagnati sulla schiena dorata, sedeva a gambe incrociate e occhi chiusi in un perfetto sukhasana, mani in chin mudra – la mascotte della spiaggia, forse lo pagano – avrebbe voluto così tanto qualcuno a cui dirlo – ecco che tornava a farsi sentire, quel vuoto. Prima di spogliarsi, prima di sdraiarsi, Dario aveva preso il telefono e aperto Grindr – qualcosa di simile a un riflesso condizionato, alla salivazione del cane che aumenta al suono della campanella – trovarsi vicino a degli uomini gay e volersi accertare della loro esistenza digitale, garantirsi il canale di contatto che la realtà sembrava aver smesso di offrire. Tra gli altri della griglia, “420 greek yogi” era ancora più ovvio e bello in foto che dal vivo, e stando all’orario dell’ultimo accesso era appena entrato in meditazione – persino quel semidio greco che sembrava nato dalla spuma del mare e dal sole aveva bisogno di un posto nel Pantheon dell’app per arrivare ai suoi seguaci. Non poteva restare vestito ancora a lungo. Via la maglietta, giù i pantaloni e in un colpo solo il costume – con la stessa rapidità con cui era comparso online, eccolo anche lui, nudo in spiaggia, addosso soltanto gli occhiali specchiati che rimanevano a fare da unico schermo. Per un attimo Dario si era sentito quasi eroico, fermo, in piedi, rigido al punto da fingersi una statua – era arrivato lì, dove voleva, ora restava soltanto da capire cosa farsene, di tutta quella libertà. La sensazione era meno strana di quanto credesse. Appena sdraiato, si era sistemato al volo il cazzo, l’aveva allungato verso la sinistra, aiutandolo a recuperare volume – ora in quanto a dimensioni era di tutto rispetto, e occupava la posizione centrale in un’inquadratura in soggettiva perfetta, con tanto di cosce, piedi, sabbia e sullo sfondo la striscia blu del mare. Non se ne sarebbe andato di lì senza una foto, aspettando il momento giusto per non essere visto dagli altri, e avrebbe pensato in seguito a qualcuno a cui mandarla. Alle sue spalle, la spiaggia continuava per una decina di metri e poi saliva a formare delle piccole dune, la vegetazione diventava più fitta – doveva essere lì che si passava all’azione. Non subito, forse più tardi, o forse mai – non era un tipo da cruising all’aperto – un giro ce l’avrebbe fatto. Si era già segato, in fondo, non c’era motivo per cui la situazione gli sfuggisse di mano. Intanto, magari, poteva iniziare con il primo tuffo – quando uscirò dall’acqua sarà minuscolo, merda. 


In una spiaggia diversa non avrebbe retto così a lungo. Aveva letto, mangiato, nuotato, si era spalmato a fatica la crema solare almeno altre tre o quattro volte, seguendo la linea del segno del costume come un bambino che si sforza di colorare dentro ai bordi – non voleva neanche immaginare il fastidio di scottarsi inguine e palle. Aveva cercato di stare al cellulare il meno possibile – si sarebbe sentito perso a dover tornare indietro senza batteria, senza poter lanciare un ultimo grido di allarme in caso di necessità. Ma per un po’, Dario era quasi riuscito a mettere da parte le ansie, tutte le sue solite ansie, e aveva passato il tempo a guardare e a farsi guardare. Un gioco di sguardi ininterrotto, con gli uomini a portata di segnale – tutti quelli nella stessa cella di geolocalizzazione di quell’app di incontri messa in scena dal vivo – e con quelli che andavano e tornavano dalle dune – un moto perpetuo di formiche laboriose e instancabili che si spostavano al rallentatore. Si era scelto un punto abbastanza di passaggio, a quanto pare. Camminandogli accanto, alcuni si limitavano ad accennare un sorriso, altri si facevano scivolare la mano addosso, come a doversi pulire dalla sabbia o a scacciare un insetto, in gesti che sembravano spontanei e rapidi all’altezza del petto, per poi diventare un chiaro invito che indugiava tra le gambe. Un francese tra i cinquanta e i sessanta – era in spiaggia in coppia, Dario l’aveva sentito parlare con l’altro, ma stava andando da solo verso le dune – si era lanciato in un occhiolino così démodé da farlo quasi scoppiare a ridere. Un tizio bianco latte dal fenotipo nordico, con un fisico tutt’altro che da vichingo, era in lizza per il record di andate e ritorno e per il numero di macchie da eritema solare sulla schiena. 420 greek yogi invece, dopo la meditazione, era scomparso in acqua – era chiaramente uno di quelli da lunghe nuotate – per poi riemergere, asciugarsi in piedi al sole guardando l’orizzonte – Dario non era riuscito a distogliere lo sguardo da quel culo perfetto nemmeno per un secondo – e infine prendere la strada delle dune senza più tornare, andandosene via camminando ancora nudo, zaino e telo in spalla, lasciando tutti in un certo stato di agitazione. Da quel fermento, da tutti quei movimenti, dopo una lunga e attenta osservazione, era emersa all’improvviso una logica chiara – qualcosa di simile all’epifania scientifica di Darwin alle Galapagos – una gerarchia di seguiti e inseguitori, lo sforzo di alcuni per raggiungere gli altri – la sabbia scotta, più avanti, il cespuglio dopo – l’esitazione prima dell’incontro, per poi vedere l’oggetto del desiderio allontanarsi di nuovo, o per poi decidere di cambiare preda. Non aveva avuto bisogno di chiedersi perché quello spettacolo gli sembrasse così familiare. Su quella spiaggia, dove avrebbe dovuto essere con Alessandro, ora si riconosceva nella frenesia dei cercatori tra le dune – era tutta la fatica che aveva fatto a inseguirlo, tutte le proposte, i bei gesti, i regali, lo sforzo per essere la versione migliore di sé, per mostrarsi eccezionale, per farsi scegliere, per farsi amare. E poco importa se davvero era stato manipolato, vittima di un narciso, caduto nel tranello di una relazione tossica – quante etichette, quanti inutili consigli da manuale e da guru del web – il punto è che non era mai stato così tanto se stesso. Anche lui, come Empty-man, era fatto di vuoto. Ma di certo non era un eroe. Non aveva alcun controllo dei propri poteri, del potere che serve per avvicinarsi a qualcuno, per dargli spazio, senza finire per scomparire. Che stupido era stato ora a pensare che la soluzione fosse semplicemente non prendere più parte al gioco. Quanto a lungo sarebbe durata quella messinscena di lui sdraiato nudo e immobile – all’inizio si era sentito bello e desiderato, diverso, quello che non si concede, ma col passare del tempo aveva notato che chi andava verso le dune ormai aveva smesso di guardarlo – uno che non combina un cazzo –, ecco cos’è che diventava, ecco cos’era già stato da ragazzo. L’effetto della sega stava svanendo – a furia di guardare tutti quei corpi nudi al sole gli era tornata voglia, e cosa avrebbe fatto, allora, scopare dietro a un cespuglio, una, due volte, prendersi chissà cosa, e poi? Nonostante fosse partito da solo, nonostante la distanza, di Alessandro non riusciva più a fare a meno – quanto ci avrebbe messo a cedere, al ritorno, a scrivergli, o a rispondere a quel suo laconico “come stai” che, poteva scommetterci, sarebbe arrivato puntuale, un richiamo, un appiglio più che sufficiente – “allora mi pensa, allora, in fondo, vuole stare con me”. All’improvviso, Dario si era visto nudo, con un principio di erezione, sdraiato sulla più bella spiaggia frocia di tutto l’Egeo. Non era mai stato così disperato.


Chissà a che velocità poteva arrivare, quel vecchio motorino. Chissà qual era la natura del suo equilibrio – se una volta deciso di andare dritto anziché curvare, una volta perturbato quel moto, sarebbe intervenuta una qualche forza di richiamo a portarlo alla stabilità, sano e salvo a casa, oppure piuttosto il suo era un equilibrio instabile – forse era pronto per una traiettoria divergente, dritto in mare, dove il sale delle lacrime che gli bagnavano gli occhi dietro alle lenti fucsia si sarebbe mescolato con quello dell’acqua, dove avrebbero recuperato facilmente la carcassa metallica – non l’olio, non la benzina, ma non sarebbe stato certo quel piccolo incidente ad accelerare i tempi dell’imminente catastrofe ambientale, e quanto al suo corpo poco importa, la crema solare era biodegradabile e Dario si sarebbe gonfiato, deteriorato, espanso fino a esplodere, si sarebbe finalmente liberato del suo vuoto interiore per diventare un pensiero ingombrante come il mare, come il Mediterraneo intero, e poi il livello delle acque sarebbe salito con lo scioglimento dei ghiacciai, l’acqua sarebbe arrivata ovunque, avrebbe vinto lui, insomma, avrebbe occupato ogni pensiero di Alessandro, i pensieri di tutti, nessuno l’avrebbe mai più fatto scomparire – qui, e per qui intendo ovunque, riposa Empty-man, indimenticato eroe.