un racconto di Giuliana Salvi

Il viso di Jana è uno di quelli che indovini solo dopo molto tempo. Ci ho messo sette giorni a capire che gli occhi erano verdi, sette per trovare l’armonia del naso con la bocca, che all’inizio mi pareva troppo piccola e invece era solo disegnata e lineare, e solo alla fine ho capito che i capelli non erano davvero lisci come sperava lei. E poi, a vederla sguazzare nell’acqua con le due figlie, poteva sembrare una loro sorella maggiore. Il suo corpo, minuto e sodo, era la cosa più lontana da quello di una madre che la mia mente adolescente potesse concepire. Jana poi rideva sempre di quelle risate che ti viene da ridere pure a te. Questo l’ho scoperto quando mia madre mi ha tirato la rivista addosso: «A chi sorridi, micetto? Pensi a qualche amichetta della scuola?». Mi aveva fatto pure l’occhiolino. L’occhiolino no – mi dissi – l’occhiolino era davvero troppo.

Da quel momento osservai Jana con più prudenza, stando ben attento a non farmi vedere da mia madre. Le fossette di Jana poi me le sognavo la notte, me le sognavo pure la mattina. Più la mattina che la notte a dir la verità, ma la notte fa sembrare la cosa più romantica. 

Ogni mattina scendevo in spiaggia con il mio telo arancione. Tutti avevano dei teli arancioni perché l’albergo ce li dava così. Tutti tranne Jana che ne tirava fuori uno viola per sé, per tamponarsi la pancia, solo la pancia, una volta uscita dall’acqua. Sapevo ormai che l’ombrellone diciassette era quello di Jana. Suo marito scendeva la mattina all’alba a stendere i teli arancioni sui due lettini, così da garantirsi un posto in prima fila. A mia madre, che perdeva mezza mattina col buffet della colazione, non restava che accontentarsi della terza fila, e così l’ombrellone ventotto era sempre nostro. Nessuno voleva l’ombrellone ventotto dell’ultima fila. Io si. A me permetteva di guardare tutti senza essere visto da nessuno. È stato così che ho notato Jana la prima volta: era scesa in spiaggia con una lunga veste bianca trasparente che le arrivava fino ai piedi, scalzi e piccoli quanto quelli della figlia maggiore. Teneva in braccio la bambina più piccola, che le stava aggrappata come una scimmia, e con la mano libera stringeva il polso dell’altra bambina che si trascinava controvoglia. Ogni mattina a passo sicuro si dirigeva all’ombrellone diciassette, svestiva le figlie, le incremava rapidamente e si lanciava in acqua con loro, che non sempre sembravano gradire. Poi, senza farsi la doccia, si tamponava la pancia col suo telo viola, indossava la veste bianca e lunghissima, prendeva la figlia piccola in braccio e la grande per mano e tornava nella sua stanza, senza parlare con nessuno. 

Una volta, aspettai accanto all’ascensore per poterlo prendere assieme a lei. Ero elettrizzato: appena entrati Jana mi sorrise, poi, guardandosi allo specchio si schiacciò un brufoletto bianco dal mento.

Ne rimasi estasiato. Mai avrei pensato che un gesto tanto rivoltante potesse eccitarmi così. La immaginai per ore a schiacciarmi i brufoli della schiena – prerogativa di mia madre – e più la pensavo impegnata sui miei punti neri più me ne innamoravo. Doveva accorgersi di me. L’ascensore era la mia unica possibilità. Quell’ascensore, in cui si era sentita così a suo agio da schiacciarsi un brufolo davanti a me. E così, ogni giorno a mezzogiorno mi piazzavo accanto alle scale in attesa che lei risalisse dalla spiaggia. Abbiamo condiviso l’ascensore per sette volte. In realtà otto, ma una non la considero perché la scimmia, la sua figlia più piccola, piangeva così forte da occupare tutta la sua attenzione. In tutte le altre, ho potuto indagare meglio il volto di Jana. Ogni volta mi concentravo su un dettaglio diverso, dettagli che dall’ombrellone ventotto non riuscivo a cogliere: un giorno furono le labbra, l’arco di cupido un po’ sudato, il segno della matita sbiadita della sera prima, i denti bianchi ma leggermente storti. Per mascherare la mia brama tenevo il berretto un po’ calato sugli occhi e in mano Donne di Bukowski, che mi ero portato per la vacanza, e di cui avevo letto e riletto a fatica solo le prime cinque pagine. Lei si comportava come se non ci fossi. Faceva in ascensore cose che si fanno quando si è soli: sbadigliava rumorosamente, si guardava tra i denti cercando tracce di cibo, si osservava nello specchio a volte inquieta, a volte soddisfatta. Alla sesta risalita, non me lo dimenticherò mai, si era aggiustata le mutande bagnate del costume, rimaste appiccicate nell’incavo del sedere. Alle figlie non badavo mai, stavano sempre in silenzio (tranne la volta della scimmia urlante), guardavano in terra o si fissavano, gli occhi di una inchiodati a quelli dell’altra. Solo una volta sono rimasto concentrato su di loro, e ho sentito una sensazione di disagio e di malessere così forte che da allora non le ho mai più guardate. Non somigliavano alla madre.

Il marito di Jana l’ho visto solo due volte. La prima, all’alba, io ero affacciato in balcone dopo l’ennesima notte insonne, mentre occupava coi teli arancioni l’ombrellone diciassette. La seconda, una mattina, quando le raggiunse inaspettatamente in spiaggia per un bagno. Era così bianco e pallido che si capiva solo a guardarlo che odiava il mare, l’estate e la vita. Si era immerso in acqua lentamente e controvoglia, non come Jana che ogni mattina si lanciava correndo in mare, schizzando tutti quelli che le capitavano accanto. Si era avvicinato alle figlie e alla moglie che galleggiavano a largo, le bambine avevano braccioli e ciambelle, mentre lei che era una sirena non aveva bisogno di nulla. Avevo intuito, solo intuito vista la distanza, che Jana non era felice di quell’intrusione improvvisa e inaspettata. Lui era rimasto pochi minuti. Poi, a testa bassa e scuro in volto, era tornato all’ombrellone diciassette, si era avvolto con il telo arancione la vita, ed era risalito cupo verso l’albergo. Ebbi l’impulso di corrergli dietro e di prendere l’ascensore con lui, ma mia madre era appena arrivata in spiaggia carica delle sue riviste preferite e mi stava costringendo a spalmarle la crema sulla schiena. Odiavo la schiena di mia madre piena di difetti, toccare quella mappa disordinata di nei mi dava un disgusto feroce. Ma all’epoca ero un adolescente remissivo e paziente. Soprattutto, avevo pietà. Ero pieno di pietà per mia madre che mi aveva cresciuto da sola, per lei che metteva il rossetto ogni mattina, per i suoi incisivi sempre un po’ macchiati di rosso, avevo pena per lei che la sera svuotava il frigo e che quando piangeva diceva di avere una congiuntivite cronica che le faceva lacrimare gli occhi all’improvviso. Anche quell’estate avevo avuto pietà di lei quando mi aveva proposto quella vacanza, la prima insieme dopo anni passati a casa dei miei zii paterni, da cui lei non si faceva vedere mai. 

Non andai a prendere l’ascensore con il marito di Jana quella mattina, ma mi dissi che per avere lei dovevo studiare anche lui, l’uomo che l’aveva nel letto tutte le sere. Come si può avere una come lei ed essere così foschi e scontenti? Ma non lo incontravo mai. Non scendevano mai tutti insieme a cena al ristorante, non li ho mai visti di sera, mai di pomeriggio. Solo la mattina vedevo Jana in acqua con le figlie, solo fino a mezzogiorno. Poi di loro non c’era più traccia fino al giorno successivo. 

Una mattina, disperato dalla mia invisibilità, decisi di coinvolgere mia madre: «Anche io facevo tutto quel casino in acqua quando ero così piccolo?», domandai, indicandole gli schiamazzi della scimmia, la più piccola delle figlie di Jana, che dall’acqua lanciava gridolini intermittenti. Non mi era venuta una domanda più sensata. Mia madre alzò la testa cotonata dalla rivista e mi mostrò tutti i suoi trentadue denti «Micetto, tu eri un angelo del paradiso!». Poi tornò a leggere. Tentai ancora: «Forse perché la madre è troppo giovane.», annuii vago all’orizzonte.

Mia madre chiuse la rivista e mi guardò seria: «Non devi mai giudicare una madre. Mai.».

«D’accordo.», alzai le mani arreso: «Vado a farmi un bagno.», annunciai esasperato. Mia madre mi sorrise senza guardami: «Non ti allontanare troppo, micetto.». Se Jana avesse sentito che mi chiamava micetto non avrei avuto più nessuna possibilità. Ringraziai Dio e la fame nervosa di mia madre per l’ombrellone ventotto dell’ultima fila. 

L’acqua era gelida e i sassolini parevano lame sotto le piante dei piedi. Non volevo cedere alle scarpette da mare blu che mi aveva comprato mia madre, non potevo farmi vedere insicuro, con le stesse scarpine che usavano le sue figlie. Jana entrava in acqua scalza, camminava sui sassi senza sforzo o dolore: era una dea, la perfezione. Tentennai il tempo che i miei piedi si abituassero al dolore e poi senza manifestare alcun tipo di emozione mi immersi in acqua. Jana non era distante, la sentivo ridere, la vedevo con la coda dell’occhio che schizzava le figlie, la piccola soprattutto, perché la grande stava giocando da sola. Fluttuai leggero, grazie all’assenza di gravità dell’acqua, molto vicino a loro. Poi dovetti bloccarmi perché l’acqua si stava facendo alta e io non sapevo nuotare. Meglio evitare di affogare per guardarla da vicino. Ero lì, acqua alla gola, a fissarla. Lei, come sempre, parve non accorgersi di me, e anche quando la scimmia, afferrandole la spalla, le spostò il pezzo di sopra del bikini, lei non lo rimise subito a posto. Lasciò il seno sinistro all’aria, il capezzolo indurito dal freddo dell’acqua che puntava dritto verso di me, che mi chiamava. Mi feci coraggio e alzai un poco la mano nella sua direzione, un gesto goffo a cui rispose strizzando gli occhi verso di me. Nulla a che vedere con l’occhiolino di mia madre. Fui certo che mi aveva visto. Sorrisi a quell’espressione agitata e tornai a riva a riprendere fiato. Nemmeno un secondo dopo essere uscito dall’acqua sentii qualcosa avvolgermi le spalle, il telo arancione con cui mia madre mi stava tamponando le orecchie. Imprecai e borbottando mi allontanai il più rapidamente possibile dalla riva.

L’ultima volta che prendemmo l’ascensore insieme accadde l’insperato. Non mi aveva mai parlato, mai guardato e d’un tratto, all’improvviso, mi salutò. Fu talmente inaspettato che rimasi a bocca aperta senza emettere un suono e così lei per incoraggiarmi mi fece cenno di uscire dall’ascensore insieme. Non credevo ai miei occhi: la donna che occupava le mie notti e i miei risvegli – soprattutto i miei risvegli – mi stava guardando. Mi stava parlando. Certo che posso aiutarti a portare giù dei pacchi. Certo che posso aiutarti a caricare la macchina. Certo che posso. Posso fare tutto. Tu ordina e io eseguo.

Mi muovevo in trance dietro di lei, nel corridoio, fino a quella che scoprii essere la sua camera da letto, la 28. Un segno. Il mio ombrellone, la sua stanza. Jana camminava sicura, come sempre. Il suo piccolo corpo perfetto, avvolto dalla veste bianca trasparente che le arrivava fino ai piedi. Da dietro, notai meglio i capelli, che erano di un color paglia che non era biondo ma nemmeno castano. Vidi che erano grossi e duri, crespi, non lisci come li immaginavo io. Fu una piccola delusione, che svanì subito non appena si girò per controllare che la stessi seguendo. Quando aprì la porta mi arrivò netta una zaffata acre, un puzzo che mi serrò lo stomaco, lei poi disse qualcosa in una lingua sconosciuta e si chiuse rapida la porta alle spalle. Restai in attesa un tempo lunghissimo, sarei potuto rimanere lì ad aspettarla per sempre, poi Jana ricomparve: profumava di vaniglia e aveva i capelli bagnati che le gocciolavano sul vestito. Non l’avevo mai vista se non in costume o con la veste bianca e ora me la trovavo davanti con un abitino viola trasparente che era un premio alla mia immaginazione. Jana aveva trascinato fuori dalla stanza due enormi bustoni bianchi con la cerniera nera, li indicò con un cenno del capo e io come un soldatino obbedii. Poi mi sventolò le chiavi di una macchina davanti alla faccia e mi fece segno di seguirla. I sacchi pesavano più di quanto immaginassi, ma non potevo farmi vedere sorpreso o affaticato. La seguii. Jana fluttuava leggera, sinuosa e vanesia. Ogni tanto si girava per vedere se ci fossi ancora e mi regalava a volte le fossette, a volte i denti bianchi dolcemente accavallati tra loro.

Una volta in ascensore, si guardò allo specchio. La vidi cercarsi nel volto qualcosa che non riusciva a trovare e per un istante incrociai il suo sguardo: sembrava terrorizzata, nuda. Per un attimo aveva perso la sua poesia. Fu un solo istante, perché poi il suo viso tornò indecifrabile e bellissimo. Superammo il piano della hall e scendemmo nel garage, dove l’aria stantia mi stordì appena. Risollevai i sacchi e la seguii finché non si fermò davanti a un’utilitaria. D’un tratto mi chiese se avessi la patente e quando le risposi: «Quasi.», colsi un lampo di delusione nel suo sguardo. Jana mi sorrise incoraggiante, mi disse: «No piace guidare anche me.», con un accento così acuto che mi venne voglia di farle il verso. Poi, aprì il portabagagli e io fiero e senza bisogno di istruzioni ci misi dentro i due sacchi. Rimasi in attesa e lei mi accarezzò la frangia sudata, spostandola lievemente dietro le orecchie. Ebbi un’erezione immediata. Di riflesso mi allontanai e lei senza sorridere e senza dire una parola mi mise una banconota da venti nel taschino della camicia. Poi salì in macchina, fece la retromarcia e imboccò lentissima l’uscita. Ebbi l’impulso di correrle dietro, di aprire lo sportello del passeggero, tirare il freno a mano, prenderle il viso sconvolto e stupito tra le mani e baciarla. Chiaramente non feci nulla di tutto ciò, o meglio non lo feci davvero ma mi immaginai di farlo per tutta la notte: noi due che ridavamo vita a quell’anonima automobile verde.

Sentii le coperte venir via e vidi il faccione di mia madre a un soffio dal mio naso: «Scusa se è presto, micetto, ma dobbiamo ripartire oggi, la zia sta di nuovo male.». Il tempo di processare il passaggio improvviso dal volto di Jana a quello di mia madre fu breve e traumatico: partire? Partire era escluso. Mancavano ancora due giorni alla fine delle vacanze e in due giorni poteva accadere ancora di tutto. «Ho già sistemato le tue cose, carico la macchina mentre fai colazione.». Quella maledettissima pazza della sorella di mia madre e il suo tempismo. Sconfitto, mi diressi in bagno dove pisciai a fatica e mi lavai la faccia. Poi, affranto mi infilai i bermuda cachi e la camicia rosa che mia madre aveva scelto di lasciare fuori dalla mia valigia. Partire sul più bello, ora che tutto poteva succedere, mi sembrava proprio da me, da uno sfigato come me. Mi dissi che se volevo crescere, diventare uomo, dovevo fare qualcosa da uomo: con uno slancio quasi preoccupante mi lanciai fuori dalla porta e su per le scale, fino alla stanza Ventotto. Le mani mi sudavano e il cuore mi rimbombava nella testa. Tesi l’orecchio per captare un qualche rumore dall’interno, ma nulla, e quando una mano fredda mi toccò la spalla lanciai un urlo – «Mi dispiace, non volevo spaventarti. Ma devo pulire qui!», la cameriera mi fece cenno con la testa verso la stanza di Jana. Siccome non risposi mi scansò piano e con un passe-partout aprì la porta della 28. Mi affacciai dietro di lei: il letto sfatto, gli asciugamani per terra e resti di cibo sparsi ovunque. La signora delle pulizie imprecò sottovoce poi entrò e mi sbatté la porta della camera in faccia. Dunque, Jana non era lì, e nemmeno le figlie e il marito. Se fosse partita il giorno prima avrei notato le valigie nell’auto, oppure era sola perché il marito e le figlie erano partiti prima di lei. Stupido, stupido idiota che ero: avrei dovuto immaginarlo. Avrei dovuto baciarla ieri in garage, quando eravamo soli, avrei dovuto trattenerle la mano quando mi ha toccato la frangia sudato e avvicinarla a me, stringerla, averla. 

Mia madre mi aspettava inquieta davanti alla stanza: «Eccoti qui micetto, non ti trovavo più!» Sai mamma la donna che amo è appena partita e non la rivedrò mai più. Potresti non rompermi il cazzo? E invece a testa bassa la seguii in ascensore, dove lei si diede una ripassata di rossetto rosso e io mi fissai le dita pelose dei piedi. Jana, pensai mentre percorrevamo le curve che ci avrebbero portato al traghetto, ti ritroverò. Prima o poi ti ritroverò.

Passarono i giorni, afosi e umidi, ma Jana era sempre lì a svegliarmi ogni mattina con le sue fossette, i suoi denti dolcemente accavallati, la sua bocca piccola e disegnata, il monte di cupido lievemente sudato che sognavo di succhiare e mordicchiare. Immaginavo noi nella sua anonima utilitaria verde, noi nella stanza Ventotto e noi in ascensore. Quelle di noi in ascensore erano le fantasie più belle, quelle che mi concedevo di rado perché preziose – le cose preziose vanno centellinate e protette. 

«Non posso crederci!». Mia madre era balzata in piedi all’improvviso dal divano –  e per far balzare in piedi mia madre così in fretta doveva essere qualcosa di serio – «Guarda micetto, non erano all’albergo con noi la settimana scorsa?», mi disse indicandomi la televisione. Mi affacciai di malavoglia: il viso di Jana occupava tutto lo schermo. Strappai il telecomando dalle mani di mia madre e alzai al massimo il volume, doveva essere successo qualcosa a Jana, alla mia Jana. Le parole del giornalista mi pietrificarono: ma che diceva quello scemo? Era impossibile. Una cosa del genere non era davvero possibile. Inammissibile. La mia Jana aveva fatto cosa? Doveva esserci un errore. La mia Jana perfetta, la mia sirena non sarebbe mai stata capace di una cosa così orribile. Il volto di Jana sparì dallo schermo e apparve quello delle bambine, della scimmia di cui mi accorsi solo ora che aveva gli stessi occhi verdi di Jana, e della più grande che aveva le stesse fossette della madre. Poi apparve il padre che veniva sorretto da un poliziotto e che scuoteva la testa piangendo. Non ci capivo più nulla. Mia madre mi si avvicinò: «Signore celeste prego per lei. Spegniamo micetto, troppo orrore!». No! Non volevo spegnere. Dovevo sapere. «Ma è morta pure lei? La madre dico?».

Mia madre mi guardò. Lo sguardo compassionevole con cui mi avvolse mi diede la nausea: «Micetto, la madre è quella in carcere». Vomitai la colazione sul tappeto e mi misi a letto. Mi salì la febbre e delirai, delirai per un giorno e mezzo. In quei deliri rividi Jana in ascensore: la rividi spostarsi il costume dal sedere, togliersi un pezzetto di cibo dai denti e schiacciarsi un brufoletto bianco dal mento. Poi la rividi in corridoio che mi ondeggiava davanti fino alla stanza 28. Poi rividi i sacchi bianchi con la cerniera nera. Quei sacchi bianchi che avevo caricato nella sua utilitaria anonima. Quei sacchi bianchi che ancora mi sogno. Poi una mattina mi svegliai così sudato che mia madre dovette cambiarmi le lenzuola: «Che brutto virus che ti sei preso micetto. Ma ora hai sudato. Il sudore è bene, butta fuori la malattia.», mi sorrise mentre mi porgeva un bicchiere con acqua calda, limone e miele.

Se volevo sopravvivere, dovevo dimenticarmi di Jana. Ci provai. Ma Jana aveva preso la mia anima e come diceva sempre la mia zia pazza, l’anima può appartenere a una persona sola. La mia di certo apparteneva a lei, e tutto quello che ho fatto nella mia vita da quell’estate in poi l’ho fatto per tentare di dimenticarla. Non ci sono riuscito. Non è un caso che io sia qui, ora, in carcere: un posto terribile ma anche bellissimo. Per me è un posto magico, è il posto in cui passo la maggior parte delle mie giornate, è il posto in cui trascorro due pomeriggi a settimana, il martedì e il giovedì, a parlare con lei. Non è stato semplice arrivare fino a qui, mi sono dovuto sbrigare, concentrare, essere il migliore. Quando l’ho rivista la prima volta ho capito che tutti quegli anni di sacrifici, di studio e fatica erano stati ripagati: lei era ancora bellissima. Ancora la mia sirena sinuosa. Certo, era invecchiata, ma su di lei gli anni non pesavano. Sul suo viso, indecifrabile, il tempo non aveva agito, perché i volti di alcune donne, quelli che non riesci a indovinare subito, sono gli stessi che non indovinerai mai.