un racconto di Fabio Rodda 
(uno spin-off de Il Giunco Mormorante di Nina Berberova)

 

Ejnar lo sapeva dalla prima sera passata con Emma, la prima almeno che ricordasse: «Quando mi sposerai, arriverò in chiesa con una bella macchina grande e nera, elegante, e voglio attraversare un parco, che le foglie colorate siano la mia cornice», ed era scoppiata a ridere. Lui aveva buttato giù un grande sorso di birra e aveva annuito, pensando che quella ragazza doveva proprio avere qualcosa di strano, qualcosa che non andava, per passare le sere in una bettola a scherzare con uno messo male come lui. Aveva alzato il boccale e aveva riso un: «E così sarà!».

Meno di due anni dopo, nella chiesa di San Giacomo appena fuori dal Kungsträdgården, l’aspettava impettito davanti all’altare, mentre una Volvo PV 36 scivolava fra le macchie giallo rossastre dei faggi, dei ciliegi e delle grandi farnie cariche di ghiande, che rompevano il verde rigoroso di abeti maestosi. Era il 1941, ed Emma aveva scelto la data: 14 novembre. Quel giorno, sua madre, morta poco dopo averla messa al mondo, avrebbe compiuto cinquant’anni.

Settembre 1939, all’aeroporto di Bromma, appena a nord della città, Ejnar era sceso dalle scale del bimotore pieno di angoscia: aveva lasciato Anastasia a Parigi. Le aveva chiesto poche ore prima, nel bus che li portava al loro addio, se c’era una poesia che raccontasse quel momento. C’era una poesia russa per raccontare la perdita? Una per l’abbandono? Sicuramente sì.

Si era acceso una Gauloises per provare a immaginarsi ancora nella capitale francese, pronto a cercare un omnibus che l’avrebbe riportato su Boulevard Beaumarchais, in quel bistrot dove il vino al bicchiere costava poco e dove avrebbe ritrovato Nastia per baciarle le labbra sottili e delicate fino a consumarle.

Ma che cosa aveva fatto? Perché era partito? Perché non era lì con lei, adesso? Un colpo di clacson lo aveva riportato alla realtà: suo padre lo chiamava dalla macchina. Su una grigia Stoccolma, aveva cominciato a piovere.

L’automobile nera, lucidissima, si fermò davanti al portale della chiesa, così asimmetricamente stretto fra due finestroni alla sua sinistra, tre sull’altro lato. Le damigelle aspettavano fuori. Emma, il viso di porcellana perfettamente disegnato, uscì dalla macchina seguita da suo padre, che le offriva il braccio per salire i pochi gradini verso la navata addobbata di fiori chiari.

Ejnar, per tutto il viaggio verso casa, aveva continuato lamentarsi. Si malediceva, accusava suo padre: «È colpa tua, che mi hai voluto qui, sarei dovuto rimanere con lei!».

«Ejnar, ascoltami, non ragioni: la Francia è in guerra. Il Führer invaderà Parigi, ci scommetto. È ovvio che dovevi tornare a casa. Se quella ragazza è così importante per te, perché non l’hai portata qui?».

«Perché, perché… perché Anastasia non può andarsene da Parigi, te l’ho detto. Ci vive con lo zio. Nastia non lo avrebbe lasciato per niente al mondo».

«E, allora, perché ti danni? Perché te la prendi con me? Hai fatto quello che potevi, è lei che non ti ha seguito».

«Dovevo restare con lei. Dovevo restare lì. Mi manca il fiato, mi pare di non riuscire a respirare. Devo camminare un po’…».

«Ejnar, hai fatto quello che dovevi. Lei ha scelto di restare. Lei! Guarda che tempaccio c’è, lascia perdere, entriamo in casa e mangiamo qualcosa al caldo».

Ma lui aveva aperto la portiera della macchina accostata sotto casa e, alzato il bavero del cappotto, si era incamminato sotto la pioggia che bagnava la Norr Mälarstrand. Aveva camminato veloce, lasciandosi trasportare dall’ansia e dal movimento delle gambe. Poi, zuppo, si era infilato in una bettola. Le pareti rivestite di legno non coprivano l’odore di muffa dei muri vecchi e bagnati della grande cantina. Aveva preso un boccale di pilsner e si era seduto vicino al pianoforte scordato su cui strimpellava un giovane dagli occhi spiritati e la fronte sudata. Accesa una sigaretta, si era lasciato crollare nella schiuma biancastra.

Emma era radiosa. Ejnar poteva intuire nei suoi occhi persino una punta di commozione. Il suocero gli sorrise complice e con un gesto del braccio lasciò sfilare la figlia, avvolta in un abito candido e morbido, verso la sua mano sinistra, tesa a cercare quella di lei. Si guardarono negli occhi. A fatica, lui riuscì a deglutire, con la voce rotta: «Ben arrivata amore mio, mia salvezza».

Aveva passato buona parte del dicembre 1939 a letto. Suo padre non aveva fatto altro che ripetergli: «Ti ammalerai!», ogni volta che lo vedeva tornare a casa malconcio a notte fonda, ubriaco, spesso infradiciato da pioggia e freddo. O rientrare dopo uno, due giorni passati con una sconosciuta di cui quasi non aveva memoria. Una sera, Ejnar aveva scritto a Nastia. Qui va tutto bene, aveva mentito, prima di tornare alla solita bettola. Che poesia c’è sull’argomento? Nella mente il ricordo della sua voce, quando avevano viaggiato stretti fino all’aeroporto, neanche un mese prima. Lei gli aveva sussurrato: «Ejnar! Addio! Sii felice sulla terraferma, qui noi…», poi, altre parole mute dietro le porte del bus che si erano serrate. «Sii felice sulla terraferma». Avesse saputo quanto si era sbagliata, quanto lui non stesse camminando su terra ferma e solida, come stava affondando minuto dopo minuto in una torbiera salmastra.

Poi, l’aveva incontrata. Era apparsa all’improvviso tra le tante birre e inutili parole spese con altri che, come lui, andavano al Pelikan ad annegare le giornate. Emma era entrata nella birreria con un gruppo di amici e si erano trovati allo stesso tavolino sfumato e confuso. Avevano parlato, forse. Ejnar era ubriaco e chissà com’era tornato a casa. Di Emma, ricordava il nome e quel viso così delicato da essere scivolato sotto la crosta di dolore in cui si era imbozzolato.

Qualche sera dopo, Emma era tornata al Pelikan da sola. Gli occhi azzurri, la voce decisa che usciva dal viso gentile e rubicondo, si era seduta davanti a lui e avevano bevuto assieme. Il loro era diventato un tacito appuntamento nel buio della bettola in cui lui poteva continuare il suo gioco scapigliato, mentre lei diventava rifugio di tutti i suoi pensieri, dei ricordi: la sua guaritrice. Diventava indispensabile.

Fu lei a portarlo a casa, febbricitante, a inizio dicembre. L’ultima notte della sua vecchia vita.

Emma sorrise, venivano dette parole d’amore. A turno, le damigelle leggevano poesie. Il fratello di Ejnar, tornato dal Brasile, ricordò in un commosso discorso il padre morto da poco e augurò tutta la felicità agli sposi, a Emma, l’angelo che aveva riportato la pace negli occhi di Ejnar. Poi, suonarono campane a festa nella luce tagliente della tarda mattinata autunnale, che già annunciava un precoce tramonto. 

Si era ripreso dalla polmonite solo alla fine dell’anno. Il 1940 era cominciato sotto un nuovo sole. Ejnar si sentiva sempre più forte e tranquillo. A volte pensava ad Anastasia, di cui non aveva notizie da mesi, e quasi si stupiva di come il suo viso stesse rapidamente scivolando in uno di quegli interstizi della memoria destinati a riempirsi di polvere. Quelle labbra, un tempo non lontano unica meta delle sue giornate, ora perdevano disegno e profumo, degradavano in un’immagine scomposta e riformulata mille volte, fino ad appannare, confondersi, quasi scomparire.

I giorni erano scappati veloci, Emma aveva preso a passare molto tempo nella casa sulla Norr Mälarstrand, per la gioia sua e di suo padre, provato dall’età, preoccupato per i figli, uno lontano, in Brasile a caccia di diamanti in vecchie cave morte e l’altro così leggero, così debole. Era felice di quella presenza fresca e forte. Lei aveva preso pieno possesso della vita del suo futuro sposo, lieto di potersi lasciar andare alla determinazione di quella ragazza che con totale naturalezza aveva preso a occuparsi di tutto: la spesa, le pulizie, i conti, la posta.

Del grumo confuso di giorni che avevano preceduto la polmonite e la fine del’39, Ejnar aveva a poco a poco lasciato sfilacciare la memoria, tenendo con sé solo l’incontro con Emma: quello che era accaduto prima, era diventato funzionale a farla apparire nella sua vita. Questo gli bastava.

Si era trovato, in una delle rare giornate di solitudine, a domandarsi perché, in quell’ultimo viaggio con Anastasia, le avesse domandato: «Non mi dimenticherai?». Forse, aveva sempre saputo che non si sarebbero più incontrati.

I balli rallegravano tutta la comitiva, già alticcia per le bevute a tavola e, mentre fuori il sole tramontava, nella sala del Grand Hotel col pavimento di legno intarsiato e il soffitto a cupola, ai valzer si alternavano brani dal Boléro di Ravel e dalla Rapsodia in Blu di Gershwin ad accompagnare torta e champagne. Verso il termine della festa, sotto i lampadari di cristallo che trasformavano le vetrate in specchi nel buio del pomeriggio, i più giovani invitati improvvisarono qualche nota e passo di swing, facendo ridere e danzare Emma e le sue damigelle. Ejnar, preso ancora un brandy dal bar, si godeva in un angolo appartato la quiete che sentiva di essersi meritato.

Suo padre era morto il 13 giugno 1940, mentre la radio annunciava l’occupazione di Parigi. Per l’ultima volta, Anastasia si era affacciata a un suo pensiero. Per un momento, era stato scosso da una soffocante angoscia: e se lei fosse rimasta uccisa sotto le bombe? E se i soldati tedeschi la avessero… poteva esserle accaduto di tutto. Ma lei non aveva mai scritto, lei non era voluta andare con lui a Stoccolma, dove avrebbero potuto… potuto, cosa? Aveva guardato suo padre, sdraiato nel letto con gli occhi chiusi e il viso sereno. Pareva dormisse. Si era ricordato di quando, sei mesi prima, avevano parlato di Hans Langsdorff, comandante dell’incrociatore pesante Admiral Graf Spee, che dopo la battaglia persa del Río de la Plata aveva messo in salvo il suo equipaggio e affondato la corazzata al largo dell’Argentina, perché non fosse presa dagli inglesi. Dopo essersi congedato dagli ufficiali con un breve discorso, era salito nella sua stanza d’hotel a Buenos Aires e lì, avvolto nella bandiera della Marina Imperiale, si era sparato alla testa. Suo padre l’aveva raccontato con ammirazione: Hitler avrebbe spazzato via la vecchia e stanca Europa con uomini come Langsdorff. Solo i russi avrebbero potuto competere per coraggio, ma il patto Molotov-Ribbentrop aveva messo una pietra tombale sui regni e le democrazie del vecchio continente. La scelta di neutralità della Svezia, ancora una volta, si era rivelata saggia. Era stata una decisione giusta. Come quella di Ejnar: era tornato alla sua vita, a Stoccolma, dove aveva incontrato Emma. Le scelte giuste danno sempre i frutti meritati.

La giornata si spegneva in una sera scura come l’acqua del lago Mälaren, che Ejanr poteva vedere oltre la strada, dalla finestra del soggiorno. Emma aspettava che la vasca coi sali si riempisse. La festa era finita, ognuno era tornato alla propria casa.

Lo baciò sulla guancia, prima di avvicinarsi alla porta che divideva il bagno dall’unica stanza, oltre alla camera da letto, del loro nuovo appartamento. Avevano venduto la grande casa del padre, diviso l’eredità col fratello, lui sarebbe tornato in Brasile con nuove risorse per rivitalizzare quelle miniere abbandonate che, ne era convinto, sarebbero tornate a renderlo ricco. I prezzi alle stelle e l’insicurezza del periodo avevano convinto Emma ed Ejnar a comprare un piccolo bilocale libero nello stesso palazzo: sarebbero stati più in alto, con tanta luce, e non avevano bisogno di chissà quanto spazio. Prima di chiudersi la porta alle spalle, lei alzò appena la voce verso suo marito: «vedrai che andrà sempre meglio, amore mio», e si lasciò abbracciare dall’acqua caldissima. Non poteva che essere così, pensò Ejnar, guardando fuori dalla finestra, la luce spenta per intuire giù in strada i lampioni, i pochi passanti e le rare barche che scivolavano sul lago. Erano al sicuro. Erano tranquilli nella loro casetta, nella loro città, nel loro Paese saggio e neutrale. Erano al sicuro, in un tempo che pareva sull’orlo della rovina. Si versò ancora un bicchiere, l’ultimo: se lo diceva da un pezzo, quel giorno. Un battello passò rapido sulle acque del Mälaren. Una coppia sembrava ballare nel silenzio. Ejnar, nel buio della piccola stanza, immaginò la musica di Strauss accompagnare i giovani amanti. Pensò alle loro vite, che danzavano a un passo dall’acqua. Alla sua, che si era legata a quella di Emma. Pensò al mondo in fiamme, alle tane sicure, da scavare e difendere. Da puntellare, per resistere a tutto quello che c’era lì fuori. Pensò a Nastia. Fu come scosso dal ricordo del suo profumo che si mischiava a quello della pioggia, quando ballavano ubriachi davanti al Bateau-Lavoir quasi abbandonato, dimentico delle pitture e della poesia che aveva animato quei muri e quella piccola piazzetta. Si sentì attraversare da una fitta che bisognava mettere a tacere. Il battello passò veloce, la musica nella sua mente scemò fino a tacere. Buttò giù il cognac e andò in camera.