un racconto di Alice Castegnaro 

Il sangue che usciva dal ginocchio sinistro era denso e rosso e sgorgava a bollicine dalla ferita fresca. Mi ricordava un disegno che aveva fatto mio fratello all’asilo, un vulcano triangolare, drammatico. Aveva iniziato a tracciare linee di matita rossa sul cratere, poi era andato in fissa e forse si era pure stufato di tutta quella disciplina e allora aveva preso a pasticciare furiosamente con la matita e la cima del vulcano era diventata trattini, scarabocchi, righe rosse a zig-zag. Mia madre l’aveva appeso sul frigo, poi la donna delle pulizie l’aveva sfilato da sotto alla calamita della Torre di Pisa e l’aveva posato sul tavolo in granito e mentre spruzzava tutto di Cif aveva colpito con il gomito la caraffa di succo d’arancia lì a fianco, poi aveva buttato la palla molliccia del disegno nell’umido e mia madre le aveva fatto il culo per quello, non perché avesse rovinato il capolavoro di suo figlio o per la sua goffaggine. La sera, mentre raccontava l’accaduto a mio padre, l’avevo sentita dire elefante in una cristalleria, facendo sfoggio di tutta la sua immensa banalità.

Mi rialzai dalla caduta e mi sedetti su un sasso vicino ad aspettare il mio turno. Lisa, Anna e Veronica saltarono pure loro una dopo l’altra, nessuna di loro cadde. Ora che eravamo sull’altra riva del fiume, dovevamo iniziare i preparativi per la lotta a corpo libero. Odoravamo tutte di sudore e un po’ di paura, ma soprattutto avevamo negli occhi un’eccitazione ferina, inebriate dalla voglia di farci male e abbandonare la leggerezza che credevamo non ci appartenesse più di diritto, ora che una di noi aveva già limonato, Anna aveva avuto il primo ciclo e noialtre aspettavamo con solennità la nostra chiamata. Quel weekend era dedicato al rito Jumanji. Lo avevamo battezzato così di comune accordo, durante la nostra prima assemblea a casa di Veronica, quando avevamo redatto il manifesto delle Puttane Selvagge. Il rito Jumanji doveva compiersi in due giorni: sabato e domenica, perché non si andava a scuola. Le prove del rito Jumanji dovevano servire: A) a determinare chi di noi fosse la più forte fisicamente, e quindi adatta a diventare a buon titolo nostra leader eletta e sacerdotessa; B) a forgiare i nostri corpi, preparandoli al dolore e alle battaglie che avremmo dovuto affrontare una volta entrate nel regno dell’età adulta; C) a sancire un taglio netto con l’infanzia pre-sesso, pre-ciclo, pre-tette – l’abbandono definitivo della purezza, per sempre.

Il Jumanji era il secondo di tre rituali iniziatici cui dovevamo sottoporci per diventare Puttane Selvagge. Il primo, lo avevamo già passato, era il patto di fede. Per il patto di fede avevamo montato una grossa tenda da campeggio in solaio da Veronica. Avevamo usato quella del fratello maggiore, che stava sempre in giro: Veronica ci raccontava che andava ai rave e ai festival e che lì ballava per giorni e facevano tutti sesso e bevevano birre. Veronica diceva che quella tenda così grande gli serviva per ospitare almeno tre o quattro ragazze alla volta. Non avevo dubbi che avrei perso la mia verginità con il fratello di Veronica, mi piaceva pensare che un giorno sarei entrata pure io nella tenda insieme a lui. Avevamo steso teli e asciugamani sul pavimento per non sporcare, avevamo spento le luci e acceso tre candele fuori dalla tenda, che non bastavano per illuminarne l’interno, ma ci andava bene così. Dentro alla tenda avevamo prestato giuramento, posando ciascuna di noi la mano destra sul foglio A4 su cui avevamo stampato il manifesto, che era ancora solo una bozza, però: Lisa era incaricata di editarlo nel corso dei vari rituali – lei che prendeva sempre 10 nei temi – fino ad arrivare alla versione definitiva e perfetta e non più passibile di un solo ritocco – una volta passate tutte dall’altra parte –, che la nostra futura sacerdotessa avrebbe conservato per noi. Quindi avevamo posato la mano e intonato a memoria il testo del manifesto, che recitava cose come giuro solennemente di rinunciare all’infanzia perduta e di votare il mio corpo e la mia mente alle Puttane Selvagge, perché il mio corpo e la mia mente non mi appartengono più, sono impuri e perduti e si annullano umilmente e confluiscono, con quelli delle mie sorelle, nel Grande Spirito delle Puttane Selvagge, ecc… In realtà eravamo ancora molto confuse su quali fossero i nostri eventuali compiti e su quali fossero i presupposti per la sussistenza della sorellanza, ma intanto eravamo gasatissime, perché Anna aveva tirato fuori la lametta che aveva rubato al supermercato e a turno ci saremmo fatte un taglio sul palmo e poi ci saremmo strette l’una le mani dell’altra, insanguinate, e ci dovevamo pure sporcare i visi con il nostro sangue e i vestitini bianchi messi per l’occasione – ma a me, a dire il vero, quello sembrava un po’ esagerato. Il terzo e ultimo rituale doveva compiersi invece di notte, alla prima luna piena, circostanza che, senza che nessuna avesse il coraggio di ammetterlo, ci risultava molto difficile da orchestrare, viste le nostre scarse conoscenze di astronomia. Troppe cose di cui tener conto poi: trovare la notte giusta, avere tutte, per quella notte, il permesso di dormire fuori, avere la sicurezza che una di noi avesse casa libera e potesse ospitarci e permetterci di fare, verosimilmente, casino. L’ultimo rituale prevedeva un’attività che era per noi troppo imbarazzante per chiamarla con il suo nome, troppo indefinita pure quella: lo scopo finale era che anche le reclute rimaste indietro sul versante verginità si mettessero alla pari. Il come e il con che cosa erano temi inaffrontabili. Data dunque la difficoltà di trovare l’occasione giusta, e dato l’orrore che ci procurava il pensiero dell’attività prevista, il terzo rituale era stato, di fatto, messo in stand-by. Ci avremmo pensato poi.

Durante la prima assemblea del nascente gruppo delle Puttane Selvagge avevamo stabilito le seguenti coppie di duellanti per la lotta a corpo libero del rito Jumanji: Lisa contro Veronica, io contro Anna. Per qualche motivo, mentre per tutti quegli incontri e anche per tutto il sabato stesso del rito l’adrenalina ci aveva avvicinate molto e ci aveva fatte andare d’amore e d’accordo, a ridosso della fase dedicata ai duelli Anna aveva smesso di parlarmi e guardarmi, e anche io covavo uno strano velenoso rancore nei suoi confronti. Stavamo sedute una di fianco all’altra sul sasso spigoloso che ci graffiava le cosce nude e guardavamo nel vuoto, fingendo di essere assorte nell’attesa del primo scontro. Lisa e Veronica, come previsto dal rito, si erano raccolte separatamente a trovare l’energia e a pregare per la propria sopravvivenza questo grande spirito che non avevamo idea di chi fosse o chi dovesse essere. Un’altra cosa di cui non avevamo parlato – ma a volte pensavo che forse solo io non avessi capito niente di tutto quanto – era come stabilire il vincitore del duello. Bastava che una, la perdente, rimanesse a terra un po’ più a lungo, tipo con il ginocchio dell’altra puntato sulla giugulare, come negli incontri di wrestling? La perdente doveva forse morire?

Dopo quindici minuti circa che mi erano sembrati un’eternità – e in apparenza anche ad Anna, che a quel punto sembrava così infuriata con me che temevo non avrebbe più potuto resistere e mi avrebbe scaraventata nelle rapide con una gomitata in faccia – finalmente le nostre compagne si presentarono sul campo di battaglia. I vestiti bianchi riesumati dalle varie cresime o pranzi di famiglia erano ridotti a stracci, appiccicati ai corpi sudati, bucati, sporchi di fango e sangue. Lisa e Veronica stavano in piedi sul piccolo spiazzo sterrato che avevamo eletto a ring e ciondolavano nervosamente, imbarazzate e senza più alcuna voglia di fare quello che si accingevano a fare. Ma le regole erano chiare. Dal canto mio speravo che qualcosa di inaspettato intervenisse a impedire l’oscenità che ci apprestavamo a guardare, soprattutto perché avrebbe svincolato me e la mia rivale dall’obbligo di perpetrare lo stesso spettacolo. Guardai Anna, che sbadigliava e si scaccolava l’interno dell’occhio sinistro con la manina sporca. Avevamo tutte una gran voglia di levare le tende e far finta che nulla fosse mai successo. Mentre l’apatia e lo scoramento generale prendevano piede, Veronica sembrava invece elucubrare su come rinvigorire l’animo collettivo e come dare il via a ciò che, ineluttabile, doveva accadere. Dopo aver emesso un urlo stridulo da amazzone, che mi aveva fatto pensare alla sgommata di un’auto in curva, tirò uno schiaffo sonoro in faccia a Lisa, il palmo  della mano  aperto al  massimo come  un ventaglio, lo spazio tra le dita tinto di rosso dalla tensione. A quel punto Lisa, la bocca aperta e le sopracciglia come saette infuriate sferzate dall’alto della fronte a convergere in una ruga terrificante nello spazio sopra il naso – lei che si era già messa comoda, pensando che il gioco fosse finito, e saremmo presto potute tornare a casa a piangere dalle nostre mamme – si scagliò a sua volta su Veronica, trasfigurata. Il combattimento fu caotico, pieno di braccia e di gambe che si scontravano, attorcigliavano, mani che afferravano, tiravano, si chiudevano a pugno e si aprivano, unghie lunghe, ginocchia, sbucciature, denti, occhi strizzati, volti che si nascondevano nell’incavo della spalla, urla, ansimi. Io e Anna, indecise se fare il tifo, separarle o trattenere qualsiasi espressione di emozione per conferire alla scena la giusta sacralità dei piani originali, fremevamo in silenzio. Proprio quando la foga iniziale stava iniziando a scemare, e a lasciare spazio a un sempre più impellente desiderio di separarsi e non rivolgersi mai più la parola – fino a un’ipotetica futura telefonata di una di noi, a dieci o quindici anni di distanza, una pizzata in memoria dei bei tempi? ecco un tonfo, un suono pesante di massa che si spiaccica sulla superficie dell’acqua in corsa e poi affonda. E poi grida, gocce impazzite, aiuto, rocce. Uno sconcertante silenzio. Il rito era finito. Anna, Lisa ed io, sulla riva del fiume, contemplavamo le rapide, unite da un nuovo, conturbante senso di pace e di compimento, indecise se rompere le righe, avvicinarci al centro abitato più vicino per fare la telefonata, piangere o non so che altro.

Finimmo sui giornali, partecipammo a diverse interviste, con la mano di qualche nostro genitore posata telegenicamente sulla spalla, prendemmo parte controvoglia a vari progetti della scuola volti a commemorare Veronica – come un orrendo cartellone rosa con alcune sue foto raccolte dai compagni, che svetta ancora oggi nell’atrio di fianco alla scalinata, ingiallito dal tempo e dall’indifferenza. Una mattina, rispettammo anche un minuto di silenzio in classe – si potevano sentire i risolini strozzati nelle gole di quasi tutti i ragazzi, e il ronzio di una mosca e il suono dei lavori nel cantiere a pochi metri dall’edificio della scuola. Fu in quello stesso momento, come incantata da una sacralità simile a quella che impregnava l’aria nei nostri rituali, che mi domandai quanto tempo sarebbe stato decoroso far passare prima di proporre al fratello di Veronica un weekend di campeggio nel bosco.