un racconto di Giuliana Salvi 

 

 

La Puttana cammina al margine della strada.

A ogni passo i tacchi si fondono con l’asfalto rovente. I capelli rossi, sciolti e immobili, sono appiccicati al viso dal caldo.

La stazione di servizio è deserta: una colonnina del carburante, un piccolo bar e un cesso pubblico.

Un clacson la fa trasalire: un camionista suona nella sua direzione.

La Puttana gli mostra i denti: sono macchiati di rossetto. Lui scuote la testa e prosegue.

 

Le cicale friniscono impazzite e le cosce sudate sfregano l’un l’altra a ogni passo.

La Puttana cammina dritta: è troppo bassa per permettersi di ingobbirsi, pensa che se si piegasse non la vedrebbe più nessuno, si scioglierebbe nella strada e sparirebbe.

In lontananza scorge una macchina che procede lenta. Strizza gli occhi: è uno carro funebre. Sorride divertita e si sistema i seni prosperosi con una mossa sicura, poi con passo deciso si piazza in mezzo alla strada.

Il Becchino accosta, spegne il motore, e abbassa il vetro: «Ma che fa? Se sente bene?».

Lei si avvicina al finestrino aperto, si scioglie i capelli con esperienza, e si passa una mano tra le ciocche umide e pesanti: «Non si vede caro? Faccio quello che fai tu».

Lui la scruta con attenzione: «Seppellisci ai morti?».

«Io li rianimo, ai muorti».

«Ambè guarda, se me riacchiappi a questo me eviti de ariva’ fino ar Verano». Rimette in moto la macchina.

«Oh! Ma che stai facendo? Te ne vai?».

«Senti scusa, ma non c’ho proprio tempo da perde».

«Eh ja bello, facimmo svelto svelto!», gli sorride civetta, «ti faccio lo sconto».

Lui la guarda incuriosito e imbarazzato, il rimmel colato ai lati degli occhi, il seno prosperoso a pochi centimetri dai suoi occhiali.

«Però mi devi scopare tra i fiori!», ammicca passandosi il rossetto rosso con cura.

«Ahó ma che stai fòri te? Io ‘ste cose strane nunn le faccio. Eh no è!».

La Puttana fa per allontanarsi dall’auto ma subito torna indietro: «Vabbè senti», schiocca le dita cercando di ricordare il nome del Becchino, anche se in realtà non si sono ancora presentati.

«Achille…».

«Ecco, Achì. Sei sicuro che il morto è quello di dentro? Eddai, ja, me lo dai un passaggio almeno?».

«Ma io devo anda’ ar cimiterooo!».

La Puttana poggia tette e braccia sul bordo del finestrino. Una zaffata di sudore e muschio invade le narici del Becchino.

«E pure io. Ti faccio compagnia».

Il Becchino scuote la testa. Poi si allunga e apre la porta del passeggero.

La Puttana fa velocemente il giro della macchina e una volta dentro porge la mano al Becchino sorridendo: «Carmelina, in arte Nina. Come la Moric».

 

La Puttana e il Becchino sono seduti in auto, lui guida serio, lento, sguardo fisso sulla strada. Lei alza il volume della radio e comincia a cantare la canzone di Nino Buonocore che vibrando invade l’abitacolo: “E se non avrai da dire niente di particolareee non ti devi preoccupareee io saprò capireee”.

Dopo mezzora sono al cimitero a camminare tra le tombe.

Il Becchino consegna la bara col morto al custode: procede a passo svelto e sicuro.

La Puttana cerca di stargli dietro, saltella tra le lapidi mentre le scruta memorizzandone nomi e date. I tacchi e la statura non l’aiutano ma lei non si perde d’animo. Mai.

Il Becchino tiene in mano delle carte, sono le ricevute della consegna avvenuta.

La Puttana si guarda intorno con sguardo inquieto: «E o’ corteo dietro alla cassa? Chi è questo che è morto? Possibile che non c’ha nessuno che lo accompagna al cimitero?».

Il Becchino alza le spalle curve: «Sapessi quanti ce ne so’. Che ce vuoi fa’! Questo l’amici li teneva pure ma erano come a lui. Barboni. Quelli so’ strani, nunn’è che vanno ai funerali… Che poi hai visto mai che la morte li segue quanno vanno via. Poi se convincono che tocca pure a loro! Vabbè lasciamo perde va’».

Il Becchino si ferma di colpo e si allenta la cravatta. La Puttana gli sbatte addosso.

«Te riaccompagno».

Lei mastica una gomma a bocca aperta e gli sorride. Poi si lega i capelli col mollettone giallo, «prima mangiamo, eh?».

Rassegnato, il Becchino guida finché non scorge un’insegna al lato della strada: “Aperti a pranzo”.

 

La Puttana e il Becchino siedono al tavolo di una locanda di campagna alle porte di Roma. Sono gli unici clienti. L’ambiente è spoglio, solo mosche e zanzare che infestano l’aria.

L’oste, un omone grasso e grosso dai folti baffi tinti di nero, li serve svogliatamente.

«Che altro ve porto? C’è er dolce della casa. Ma quello forse ve lo magnate dopo da soli. O magari se lo magnamo tutti e tre insieme. Se la ‘zoccola è d’accordo», aggiunge sottovoce guardando il Becchino che sorride imbarazzato, che abbassa lo sguardo ad ogni frase.

Lei guarda l’oste di traverso: «Il dolce lo prendiamo dove lo prende tua moglie: nel retro».

«Quanno hai finito con lui ce penso io a te», poi si gira e fa per andarsene, «anvedi sta ‘zoccola oh!».

«E mo’ che è? Te facesse schifo servì una puttana? O te facessero mica schifo i soldi delle puttane?».

Il Becchino non dice nulla. Con lo sguardo vaga per la sala vuota.

La Puttana si alza di scatto rovesciando la sedia: «E tu!», uno sputo finisce sugli occhiali del Becchino, «io sarò pure ‘na puttana, ma tu m’hai portato a mangiare, e mo’ mi devi trattà come a una signora. La signora tua. Perché pure io me merito di essere difesa una volta nella vita!».

Lo grida mentre esce dalla locanda a passo svelto e deciso lasciando il Becchino frastornato e l’oste incazzato.

«E pe’ fortuna che il cliente c’ha sempre raggione…».

L’uomo si rivolge al Becchino con un ghigno crudele.

Il Becchino espira rumorosamente: «E non me rompe le palle pure te», gli occhiali ormai gli sono scivolati sulla punta del naso sudato.

«Ahó, mo’ m’avete davero rotto li cojoni tutti e due. Quella è ‘na signora, ma tu nun c’hai scusanti!».

L’oste si avvicina minaccioso al Becchino che di riflesso si alza dalla sedia e indietreggia verso il muro. Si ricorda la frase che gli diceva sempre suo padre, “chi mena per primo mena due volte”. Allora fa un respiro, si toglie gli occhiali e li posa con cautela sul tavolo, poi, con gli occhi chiusi, si lancia verso l’oste urlando per farsi coraggio.

 

Il retro della locanda è verde. Vecchie sedie e tavoli in legno sono accatastati in un angolo. Lì vicino c’è una veranda. Una donna grassa, della stessa età dell’oste, sta addentando, circospetta e ingorda, una fetta di torta al cioccolato. Appena scorge la porta della locanda aprirsi si blocca di scatto e la fetta di torta le cade di mano. Quando vede che a uscire è una donnina piccola e formosa fa un sospiro di sollievo, raccoglie la torta, e mentre la segue con lo sguardo, la rimette in bocca spavalda.

La Puttana si siede su un piccolo masso. Sventola un ventaglio a fiori e si guarda lo smalto rovinato dei piedi. La porta della locanda si riapre cigolando e la moglie dell’oste blocca nuovamente il suo attentato alla torta, poi si pulisce svelta con la manica la bocca sporca di cioccolato. Non appena vede un uomo tutto vestito di nero che si incammina verso la donnina, si sistema il grembiule, prende la torta rimasta, e rientra guardinga in cucina.

Il Becchino si avvicina piano alla Puttana. Si sta tamponando il naso insanguinato con uno strofinaccio.

Le si siede accanto, lei non lo guarda nemmeno.

«Mo’ non puoi dì che nun t’hanno vendicato mai», le dice mostrandole lo straccio sporco di sangue

Lei continua a fissare il prato davanti a sé: «È servito a molto, già parevi uno schiattamuorto prima, mo’ c’hai pure un occhio gonfio. Che bello spettacolo».

«Comunque le ho prese forti».

Ora guardano entrambi nel vuoto, un punto fisso e indefinito davanti a loro.

«Io sto co’ i morti tutto il giorno. Tutti i giorni. La sera finisco e torno a casa. Sai chi ce sta a casa? Mamma sta a casa. Pure la cena pronta me fa trova’. So’ anni che dice che vòle diventa’ nonna. Porella mamma».

La Puttana ora guarda il Becchino.

Lui scuote piano la testa, stacca un ramoscello d’erba da terra, e se lo mette in bocca.

Dopo qualche secondo lei glielo sfila dalle labbra e comincia a giocarci con le dita.

«Non parlo con la famiglia mia da dieci anni. Che eravamo pure una bella famiglia sà. Mio padre era, è, un falegname. A una festa di paese, avevo diciotto anni, uno zio mi è venuto vicino. Un cugino di mamma che chiamavo zio. Mi ha detto “Vieni Ninù, ti faccio vedere i vestiti che ho preso allo spaccio giù a Nola”».

Continua a giocherellare col ramoscello. Lo sguardo si fa freddo, vuoto.

Il Becchino ora ha gli occhi fissi su di lei.

«Non ho detto nulla a nessuno. Il giorno dopo ho fatto le valige e sono venuta a Roma. I primi tempi facevo le pulizie nelle stazioni di servizio. Poi ho conosciuto Stella, Enza e le altre che venivano a fare colazione all’alba. Soldi facili. Assai facili».

La Puttana si volta verso il Becchino.

Il Becchino le toglie il ramoscello ormai martoriato dalle dita: «Te piace ‘er mare?».

«Non hai da lavorare?».

«Nun mòre nessuno se oggi nun ce vado a lavoro».

 

La spiaggia è un fazzoletto di terra pieno di plastica sporca e avanzi di cibo che i gabbiani mangiano a poca distanza da loro.

La Puttana afferra sicura la mano del Becchino e si incammina verso la riva.

Piedi nell’acqua si scioglie i lunghi capelli rossi e si sfila dal basso il vestito a fiori.

Il Becchino è immobile, pantaloni arrotolati fino al ginocchio. La Puttana entra in mare, si immerge lentamente, si sfila il reggiseno e lo lancia verso di lui.

«Andiamo schiattamuorto!».

Il Becchino comincia a sbottonarsi la camicia bianca. Sotto si intravede una canotta dello stesso colore.

«È che ce scaricano le fogne qui vicino. Nun ‘è che muoio dalla voglia».

«Maronna mia schiattamuorto… E che angoscia! Stai nu poco zitto e vieni qua!».

Lui finisce di sbottonarsi la camicia e rimane in canottiera. Con fare goffo si sfila i pantaloni. Ora è in mutande bianche e canotta bianca.

«È fredda… Mo’ piano piano… Da quant’è che abbiamo mangiato?».
Lei sbuffa platealmente e si butta all’indietro, sott’acqua. I capelli rossi ondeggiano come alghe, sembra una sirena.

Lui si sfila la canotta ed entra maldestro in acqua. Immerge prima i polsi, poi con le mani si bagna cauto la pancia. La Puttana nuota verso di lui.

Quando sono vicini lo schizza, lo prende per le spalle, per la testa, fa per affogarlo.

«E piano! È fredda… Cazzoooo! Uuuuuuhhhh!!! Vie’ quì che mo’ te pijo. E mo’ te pijo!».

La Puttana e il Becchino giocano in acqua come due bambini: si schizzano fingendo di affogarsi l’un l’altra tra schiamazzi e risate.

 

Il sole è sempre più basso: una luce aranciata colora d’oro la sabbia e i capelli crespi della Puttana.

Lui è seduto in terra con indosso la canotta mezza bagnata. Lei è poggiata sul cofano del carro funebre con addosso la sua camicia bianca.

Entrambi guardano il sole che scende sul mare.

«Me sa che s’è fatto tardi. Me s’è scaricato pure il telefono… Volevo avvisare mamma che non ceno a sto’ punto».

La Puttana balza giù dal cofano, si piega davanti a lui, e gli stampa un bacio sulle labbra: «Il mio schiattamuorto».

 

Il sole è affondato nel mare. La Puttana e il Becchino radunano le loro cose e montano in macchina. Lui accende la radio ma lei abbassa al minimo il volume.

Il carro funebre avanza lento sulla provinciale. Come quella mattina.

Dopo qualche chilometro il Becchino accosta incerto e spegne il motore

«Sei sicura che nun vuoi esse riportata a casa? Non lo so se te posso lascia qua in mezzo. Boh. Me pare pericoloso».

«Ma no. Io m’arrangio, non ti preoccupare. Poi a casa c’è Enza che lavora. Abbiamo regole rigide assai noi zoccole».

Gli sorride. I denti non sono più macchiati di rossetto. Poi si stringe nelle spalle. Ha freddo. Lui le passa svelto la giacca e lei se la poggia sulle spalle.

La Puttana scende svelta dall’auto: «Ma a casa tua invece?».

«C’è mamma».

«Giusto. Finché c’è mamma’», gli sorride, si piega in avanti, e gli stampa un bacio sulla fronte. La forma delle sue labbra è ben visibile sulla pelle salata di lui, «allora ciao schiattamuorto».

Il Becchino la osserva incamminarsi in direzione opposta a quella del senso di marcia. Sulle spalle tiene la sua giacca. La solita postura dritta, i passetti svelti e decisi.
Il Becchino sospira. In macchina c’è ancora l’odore al muschio di lei. Poi mette in moto e parte.
La Puttana continua a camminare.