un racconto di Matteo Russolillo


La notizia è arrivata, non che sia stata una sorpresa, infondo. Ormai erano quasi due mesi che doveva succedere “oggi”. Ti prepari, sai che succederà, ma quando arriva davvero il momento, non sei pronto. Appoggio il cellulare ammutolito sul tavolo e vado ad incrociare lo sguardo sospeso di Emily.

«Mio zio è morto.»

«Mi dispiace amore…»

Il suo dispiacere mi colpisce. Perché mi rende chiaro che, personalmente, non mi dispiace. Non che avessi qualche rancore verso mio zio Marius, però, in fondo, non me ne frega niente, il problema è un altro. Se fosse morto e basta, se la sua dipartita si limitasse all’essenza, forse mi dispiacerebbe. Ma sono divorato dallo scoramento di sapere cosa mi toccherà fare nei prossimi giorni.

«Cosa fai adesso? Devi andare?»

Non è solo il dover tornare dopo sedici anni nel minuscolo paesello dei miei nonni, per quanto la modernità non lo abbia reso meno irraggiungibile. E non sono nemmeno il funerale, la bara aperta nel cortile, la gara di finte lacrime e vere urla delle vecchiette che si avvicenderanno al feretro per la performance. Potrei prenderla come una bella botta di folklore e rispolverata di tradizioni familiari, se non fosse per ciò che avverrà subito dopo. Quello mi strazia. È disturbante. Tremendo. Non ci si crede.

«Ma che cazzo dici? Ma siete pazzi? Mi prendi in giro?»

Infatti, la mia candida e americanissima moglie non ci crede.

«No…purtroppo, no.»

Non ho mai visto la sua faccia così spudoratamente schifata: un misto di ripugnanza, paura, razzismo e stupore che mi fa venire voglia di correre ad abbracciarla, per paura che mi lasci improvvisamente e per sempre.

«E perché dovete fare questa cosa?»

Beh, “dovere” è sicuramente un termine un po’ forte per la situazione, però, verrà fatto. Verrà fatto perché zio Marius è nato “con la camicia”.

«Com’è nato?»

«È nato con il sacco amniotico intatto. Non si è rotto prima del parto. Nessuna rottura delle acque ad annunciare l’arrivo del piccolo Marius.»

«Oh…che strano…»

Strano, sì, abbastanza. Una nascita su ottantamila. Ma il fatto in sé è positivo, per il bambino, il parto è molto meno traumatico. Bisognerebbe fermarsi qui, alla scienza.

E invece no. Invece quasi ogni popolo del mondo ha dato a questo fatto una sua liberissima e fantasiosa interpretazione. Il mio popolo, i Romeni, gliene hanno data una che va a braccetto con il nostro più celebre personaggio storico, e con tutti gli stereotipi che mi piovono addosso da quando sono arrivato nella terra delle opportunità. Sono ventiquattro anni ormai.

«E devi esserci anche tu a questa…questa cosa?»

Esatto, devo esserci anche io. Devo esserci per forza io, dato che mio padre, morto nel 1998, non potrà rappresentare il nostro ramo familiare.

«Tua mamma?»

«Amore, mia mamma non torna in Romania da quando è scappata nel ’91. E se proprio dovesse mai un giorno tornare, non sarà certo per andare nel peggior buco del culo del paese, a trovare la suocera e il cognato morto.»

«E quando parti?»

«Subito. Domani, oggi, appena possibile. Va bene che fa ancora abbastanza freddo, ma più di qualche giorno lo zio Marius non dura.»

Come direbbe nonna: “S-a dus” – se ne è andato – “și nu se mai întoarce” – e non tornerà più.

«E quando torni?»

«Eh…prima bisogna vedere quando riesco ad arrivare…»

«In che senso?»

«Nel senso che non hai idea di dove sia casa di mia nonna, tesoro.» cerco di mimare l’irraggiungibilità a gesti.

«Esagerato! Anche noi viviamo in un piccolo paesino.»

Adorabile, non ha idea.

«Amore, noi viviamo a Willistown, siamo a mezz’ora di autostrada da Philadelphia. Un’autostrada piatta. Dritta. Mia nonna vive a Mosna. Non c’è nulla di rettilineo che ti ci possa portare. Non c’è nulla di nemmeno lontanamente simile a Mosna in tutta la Pennsylvania. Vedi, lì, lì fuori, quella cosa grigia e liscia che passa davanti casa?»

Indico fuori dalla finestra.

«È asfalto, tesoro. Rende i luoghi raggiungibili. A Mosna non è ancora giunto questo miracolo.»

Mi guarda più stranita di prima.

«Non c’è asfalto, non c’è internet, l’ultima grande invenzione è la corrente alternata. Potrebbe essere un ottimo rifugio in caso di guerra termonucleare globale, non ce ne accorgeremmo nemmeno. Hai presente Elvis e la leggenda sul fatto che non sia morto ma su una qualche isoletta a prendere il sole? No! Su qualunque isoletta potesse andare, lo avrebbero trovato. Ma potrebbe essere a Mosna.»

«Mi prendi in giro!»

Purtroppo, anche in questo caso, mio caro e statunitense angelo, no.

«Beh…se avevo voglia di venire con te, me l’hai fatta passare.»

«Venire con me? No! E perché? Vedresti cose che voi americani non potete nemmeno immaginare. E comunque non puoi volare oltre il settimo mese.»

«Si può volare fino all’ottavo. Io sto benissimo.»

«Ok, ok, ma facciamo di no, dai. Stai qui, anzi, state qui e mi aspettate, tu e i nostri sette mesi e mezzo di bambina.»

«Ok…»

«Massimo giovedì sono di nuovo qui!»

Mi precipito alla ricerca del primo volo utile, e in cinque minuti, ecco il piano: Philadelphia-Amsterdam, Amsterdam-Istanbul, Istanbul-Bucarest. Ventuno ore, che, tradotto nei tre fusi orari da attraversare, significa partire domani dopo pranzo e arrivare a Bucarest alle 18:00 di lunedì. Il ritorno non è da meno: Bucarest-Parigi, Parigi-Detroit, Detroit-Philadelphia. Venti ore. Partenza alle 7:00 di giovedì e rientro alle 22:00 dello stesso giorno. Magia del fuso orario. Preso! Adesso devo comunicare i miei tempi a nonna per l’organizzazione del rito. Sperando che l’FBI non abbia deciso di intercettare proprio questa telefonata. Nel qual caso potremmo sempre dire che è un’idea per un film horror.

«Aerei presi e parenti avvisati!» cerco di simulare euforia nell’annuncio.

«Bene, e una volta a Bucarest?»

«Verrà a prendermi mio cugino! Viorel.»

All’ingresso dell’aeroporto Emily mi saluta come se stessi partendo per il Vietnam degli anni ’70. Io la bacio sulle labbra sgonfie e sulla pancia gonfia, e mi avvio, raccomandandole di stare tranquilla, di fare attenzione, di non esagerare con questo e quello. Lei mi raccomanda le stesse cose.

Al controllo passaporti assisto alla consueta reinterpretazione americana del mio cognome.

«Mister…Stoichtiii-i-i-i»

La lunghezza della “i” finale è direttamente proporzionale alla crisi del dover leggere “Ştoichiţei”. Ho rinunciato a ribattere con il corretto «Sctoikizei» dopo un mese di appello a scuola. Nel ’91.

Il primo grande balzo aereo è un attimo. Anche perché ho una eccezionale capacità, in aereo: dormire. Sono proprio bravo! Non importa l’ora, il momento della giornata, la luce, il rumore. Io mi addormento ancor prima che la hostess spieghi le regole di sicurezza. E quando dormo, russo. Forte. Davvero forte.

Devo averlo fatto anche questa volta, visto il cambio di atteggiamento del mio vicino di posto, che a Philadelphia mi salutava sorridente e a metà dell’Atlantico ha le cuffie saldate in testa e non vuole nemmeno guardarmi. Tanto vale ricominciare a russare fino all’Olanda.

Bucarest! Terra! Mi fa un effetto strano tornare dopo sedici anni. Sembra mi guardino tutti. Male, per giunta. Soprattutto il poliziotto al controllo passaporti. La pronuncia del cognome è giusta, ma in quanto a entusiasmo vincono gli States.

È come se in faccia avessi scritto “ragazzo Romeno scappato in America che, dopo la morte del padre, ha dimenticato la sua amata terra d’origine”. Riesco anche a sentirmi in colpa. Esco e cerco mio cugino, chiedendomi se riuscirò a riconoscerlo, e viceversa.

Lo vedo quasi subito, mi viene incontro spedito. È mio cugino, ma in versione pallone da spiaggia. Forse è un momento della vita in cui tutte le persone a me care iniziano a gonfiarsi. Deve aver preso due chili per ogni anno di lontananza. Mi sento ancora in colpa.

«Bai! Americanule!»

«Sei ingrassato, cugino!»

«Andrei, noi qui mangiamo bene, mica come in America.» primo punto di cieco orgoglio patriottico.

Trascino la mia ridottissima valigia fino a quella che capisco essere la sua auto, ma vedo che apre la porta sbagliata. L’idea che rinunci al suo ruolo di maschio alfa e mi permetta di guidare non mi sfiora nemmeno per un secondo. Infatti, la macchina ha la guida a destra.

«Perché il volante è a destra?»

«È una macchina Inglese!»

«Ma è una BMW…»

«È speciale! Una come questa non ce l’avete in tutta l’America.» secondo punto di orgoglio patriottico. Ne seguiranno centinaia.

Usciamo dal posteggio sorretti dalla colonna sonora dei continui “du-te-n pizda mătii!” di Viorel. Un non delicatissimo invito a recarsi letteralmente nella vagina della propria madre, con cui investe ogni entità che, anche solo apparentemente, ostacoli la nostra marcia. Vengono travolti nell’ordine: il signore nella macchina a fianco, quello che aspetta di prendere il nostro posto, un cane, una signora che attraversa di corsa, un palloncino, un poliziotto, la macchinetta del biglietto.

Secondo Google Maps ci vogliono tre ore e mezza per raggiungere Mosna. Secondo mio cugino due. Ne impiegheremo più di quattro. Ma il tempo vola. Rinfreschiamo ricordi, lucidiamo foto mentali che solo noi possiamo ricordare. La fuga della mia famiglia anticomunista in America, la rivoluzione che mio padre non credeva possibile “Ti sei perso il meglio” dice Viorel, per quanto “meglio” sia una parola poco associabile a quegli anni.

Il nostro ritorno, con mio padre orgoglioso di tornare in una Romania libera, ma anche imbarazzato per non aver partecipato a liberarla. Le bandiere col buco al centro. Le diffidenze, l’incertezza, gli sguardi sospettosi. Amici spariti, che non ci salutavano più, e amici spariti per davvero.

Per fortuna noi eravamo piccoli, troppo piccoli, o meglio, abbastanza piccoli. Per non capire, per non farci inquinare, e tutti i nostri ricordi sono sottolineati da rumorose risate e pugni sulle spalle. E diversi “du-te-n pizda mătii!” ovviamente.

L’album delle fotografie si interrompe all’estate del ’98, avevo diciassette anni. La morte di mio padre, nel settembre di quell’anno, ha messo fine ai miei ritorni a casa. Non siamo venuti nemmeno per il funerale di mio zio Vasile, il padre di Viorel, non ricordo che scusa avessimo usato. Quando accenna a questo, mio cugino tradisce delusione. Io lo capisco, mi sento in colpa, non dico nulla, e a lui basta.

Di zio Marius non parliamo molto.

«Bețivan!» – Ubriacone. Questo l’unico commento che Viorel ha cuore di esprimere sul fratello dei nostri padri.

Del rito però vorrei discutere.

«Ma lo faremo davvero?» chiedo. E per un millesimo di secondo, anche meno, penso che mio cugino possa essere dalla mia parte.

«Certo!»

Merda.

«Ma…»

«Non vorrai che si trasformi in un vampiro!»

Non mi fa nemmeno finire. La sicurezza delle sue parole mi disarma completamente di fronte ad ogni tentativo di resistenza potessi pensare di opporre allo svolgimento di questa assurdità.

«E sai chi ci sarà, anche?» mi chiede ammiccante.

«Chi?»

«Eh…chi…!?!»

«Chi?»

«Lei!» mi guarda annuendo soddisfatto.

«Dana?»

«Esatto!»

«Cazzo!»

Dana è stata il mio primo amore, la mia prima delusione, la mia prima speranza. Fin da piccolissimo ero innamorato di lei. Giocavamo insieme a Viorel e agli altri bambini, ma io sognavo sempre il modo di portarla via. Se giocavamo ai cavalieri lei era la principessa da salvare, se giocavamo a guardie e ladri lei sarebbe stata la ladra con cui sparire.

I nostri contatti fisici si limitano ad un bacio. Sulla guancia. A dieci anni. Crescendo iniziai a immaginarla sempre meno principessa e a desiderarla sempre più zoccola. Ma mi dovetti sempre limitare a dedicarle un sacco di poesie. E di seghe.

«Non ci credo, è rimasta a vivere a Mosna?» cerco di limitare la mia bramosia di informazioni.

«Sì, è rimasta lì vicino. Fa la maestra adesso.»

«Ed è sempre…carina?»

«È una strafiga! Ancora meglio di quando eravamo ragazzi.»

Questa fa male.

«È sposata?»

«Noooo!»

Anche questa fa male.

«E pensare che te la potevi scopare!»

«Che cazzo dici!»

«Sì, sì, l’estate che sei partito era calda al punto giusto, te lo dice tuo cugino! Io le capisco le donne. Ma poi non sei più tornato…»

«Lo dici apposta, stronzo! Du-te-n pizda mătii!»

«E comunque tu sei sparito e io ho provato a consolarla per tutta la vita. Non me l’hai mai data! Du-te-n pizda mătii!»

Lungo il tragitto è obbligatoria una sosta ad Albota, per mangiare quelli che sono ancora, a sentire Viorel, i migliori mici della Romania. C’è da credergli, cazzo. Mi bastano due atomi di quel profumo celestiale di fumo, grasso e carne che sfrigola, e vengo ribaltato all’adolescenza.

Li mangiamo come vanno mangiati, in piedi, appoggiati ad un barile che fa da tavolino, affogandoli nella senape e scolandoci una Ursus in bottiglia di plastica da due litri.

Lungo la strada osservo tutto, come un bambino che passa una frontiera: nuove costruzioni, vecchi buchi, nuove insegne, molto è cambiato. Non gli incredibilmente innumerevoli venditori di gomme di auto, vulcanizare, quelli sono sempre tantissimi.

Lasciamo la statale e attraversiamo nell’ordine Pietroaia, Brabova e Răchita de Jos, paesi sempre più piccoli uno dopo l’altro, ma nulla rispetto a dove stiamo andando. Quando da giovani partivamo da casa di nonna per arrivare a uno di questi, ci sembrava di entrare a Las Vegas. Ad un certo punto, nonostante il buio, riconosco il punto esatto in cui bisogna svoltare. Lo conosce solo chi sa che quell’apparente strada è davvero una strada, e porta a delle case con delle persone dentro. È come il binario segreto di Harry Potter: solo chi ci crede può vederlo.

Ovviamente il passaggio segreto decreta l’abbandono dell’asfalto, e il percorso si fa ondeggiante, sinuoso, violento. La super BMW inglese di Viorel inizia a grattare la terra, prima davanti e poi dietro, a infossarsi, a imbufalirsi, a soffrire. Ad ogni buco prendiamo testate. La frequenza dei “du-te-n pizda mătii!” raggiunge il suo apice assoluto.

Non passo da qui da sedici anni, ma questa strada avrei potuto disegnarla centimetro per centimetro. Degli ultimi cento metri, quelli dopo la svolta a destra che conduce alla casa di nonna, conosco ogni buco, pietra e radice. Ad ognuno posso associare cadute con la bicicletta, dolori alle ginocchia, inciampi mentre da ladro scappavo dalle guardie.

Abbandoniamo la macchina davanti allo steccato, sbilenco esattamente come lo ricordavo, e attraversiamo il cancello fatto con un pannello di metallo. È aperto per far sì che chiunque, del paese, possa entrare e salutare la salma di zio Marius, sdraiata nella bara aperta in mezzo al giardino.

Arriviamo esattamente nel momento in cui mia zia Florina sta esternando  il suo dolore per la morte del fratello. Effettivamente c’è un bel pubblico, almeno quindici persone.

«Scoala-teeeee!!!» urla a Marius di alzarsi. Lui non obbedisce. Le grida e il pianto sono impeccabili, strazianti. Ad ogni urlo si piega come una frusta appoggiandosi alla bara, come se sotto i suoi piedi fosse sparito il mondo. Sembra cedere, non farcela. Poi si rialza, sembra uno di quei pupazzi gonfiabili degli stadi, che si afflosciano e rigonfiano a seconda di come arriva il flusso d’aria. In realtà non rischia mai di cadere, ma lo può sapere solo un occhio esperto. Ottima prova zia, davvero.

Ad un certo punto, in preda alle contorsioni del dolore, con la bocca deformata da quel mix di lacrime, preghiere e suppliche, ci vede.

Bam!

Si rizza in piedi tipo centometrista, e ci viene incontro con passo sicuro, quasi leggero. Voce composta e calma, lacrime sparite.

«Avete mangiato ragazzi, volete qualcosa?»

È passata da povera sorella dilaniata dalla perdita, a hostess di prima classe nel giro di due passi. Favolosa, se la portassi con me in America le darebbero un Golden Globe. Il suo posto viene preso da una non precisata vecchietta, che mi fa sobbalzare quando parte col primo urlo, molto acuto, probabilmente è al suo primo turno di dolore, ha un sacco di energia. Si avvicendano al feretro come fossero tanti jazzisti con un solo sassofono a disposizione. Cambiano gli interpreti ma il pianto non deve cessare.

Zio Marius resta imperturbabile e impeccabile nel suo vestito nero, circondato dalle balze bianche dell’interno della bara. Gli lancio un’occhiata veloce, faccio fatica a riconoscerlo. Mia zia mi abbraccia, mi stringe e mi sorride, poi ci porta dentro casa, dove c’è di tutto da mangiare. I pianti straziati mettono fame.

Ne approfitto per fare un giro in casa di nonna. Il soffitto, che ricordavo basso, adesso mi fa impressione, sembra di entrare in una caverna, devo chinarmi per non dare testate. I pesanti tappeti sul pavimento sono gli stessi, la stufa al centro anche, gli elettrodomestici sono nuovi. Più o meno. È rimasto anche il ritratto di Ceauşescu, ultimo baluardo dell’incrollabile comunismo di mia nonna. Ricordo i litigi tra lei e mio padre, che fingeva di sputare al quadro ogni volta che ci passava davanti. Lei insultava papà e gli tirava qualunque cosa avesse in mano. Non capivo.

La vedo entrare in casa con qualche ortaggio in mano, quando mi vede si porta le mani alla bocca, le verdure cadono, poi si fa tre o quattro segni della croce ad una velocità robotica.

«Andrei!»

«Mamaie!»

Quello con nonna non è un dialogo, è un processo: come mai ci ho messo tanto ad arrivare? Come mai non vengo da anni? Perché Emily non è venuta con me? Alle americane non piace seguire i propri uomini? Donne del cazzo. Sarebbe stata un’ottima occasione per far nascere mia figlia in Romania, dove dovrebbe nascere. Altro che America del cazzo. Sono magro. Sto male. Mia mamma? Sempre stronza. Come mia moglie, alla fine. Speriamo mia figlia sia diversa. Nonna ci tiene a farmi sapere che sarà difficile che non diventi stronza come le altre donne della mia vita. Sospira, prende fiato, ed è il primo momento in cui dovrei ribattere, difendermi .

Ma no, il processo è già finito. Appena abbozzo a muovere la bocca mi zittisce con entrambe le mani scuotendo la testa.

E ricomincia.

Scappo fuori.

Viorel mi guarda e ride.

Nel cortile il concerto di urla è leggermente calato di volume e intensità, il pubblico sta scemando, meglio tenere le energie per domani.

Mi siedo su uno sgabello che usavo anche trent’anni fa, provo a chiamare Emily, ho bisogno di un contatto con la mia realtà. Mezzanotte e un quarto, a casa sono le 18:15, buona combinazione di fuso orario, prendo il telefono. Zero, morto. Sono a Mosna, cazzo, la rete arriverà quando ci sarà il mio, di funerale. Qui questo non è più un telefono, è una macchina fotografica, nella migliore delle ipotesi, o un fermacarte.

«Andrei!»

Ahia.

«Andrei!»

Cosa dico? Cosa faccio? Mi giro? Vorrei girarmi con lo stesso carisma di Michael Jackson al SuperBowl del ’93.

Vorrei.

«Andrei!»

L’abbraccio mi travolge prima di poter dire qualcosa o ragionare oltre. Che buon profumo. Che bella pelle da sentire tra le mani.

Mentre l’abbraccio si scioglie, riesco solo a masticare un “Ciao Dana” che sembra pronunciato da un cane, mentre perdo gli occhi su e giù per la meravigliosa figura che ho davanti.

«Aveva ragione Viorel.»

«Come?»

Merda.

«Volevo dire, che Viorel mi ha detto che saresti venuta domani…»

«Sì, ma non potevo aspettare fino a domani per salutarti…»

Ahia.

«E poi tutte queste grida disperate non mi fanno dormire…»

Riusciamo a scambiare due battute. È stupenda, brillante, sexy, e ammiccante quanto basta per prendermi e mettermi in tasca nel giro di trenta secondi. Ha due anni più di me ma sembra ne abbia dieci di meno.

Il calore delle sue labbra sulla guancia, e il “ci vediamo domani” sapientemente sussurrato, rivoltano i cassetti delle mie fantasie adolescenziali, nel cervello che ormai è una stanza appena svaligiata dai ladri, dove è tutto per aria e non si capisce più niente.

Quando il suo corpo si allontana, scopre ai miei occhi Viorel, che mi fissa mentre sta fingendo di scopare e leccare un palo della luce…

«Du-te-n pizda mătii, Viorel!»

 

La mattina seguente siamo tutti schierati come pedine nere in chiesa. Stare in piedi è uno strazio, il letto è rimasto altissimo e mollissimo come sedici anni fa, il mal di schiena al risveglio è una novità portata dal tempo.

Sono assonnato, in chiesa fa più freddo che fuori. Mi sorprende del movimento alle mie spalle, disordine in questa mezza scacchiera addolorata. Poi una stretta sul braccio destro, un buon profumo, onde di capelli scuri mi allarmano tutti i sensi. È arrivata Dana. E si è impegnata per venire vicino a me. Stesso effetto di una secchiata di acqua gelida, non sono più assonnato, forse inizio a sudare. Viorel, alla mia sinistra, sottolinea l’arrivo con una gomitata.

Mi volto a guardarla e soffoco nel suo sguardo paralizzante. Mi sorride e abbassa la testa. Anch’io abbasso gli occhi, seguendo il perimetro del suo corpo come se dovessi ricalcarla. Arrivato al petto mi devo fermare, tra le balze di pizzi neri, la scollatura mi isola dal mondo. Riesco anche a vedere il neo a metà del seno destro, quel maledetto puntino che è sempre stato il limite massimo di ciò che potevo vedere. Un pallino beffardo, un punto alle mie fantasie, un’isoletta del tesoro su una vecchia mappa dei pirati. Cazzo non devo farmi beccare a guardarle le tette! E come faccio? Lei mi guarda di nuovo e sorride. Missione fallita. O forse è la sua missione, che sta procedendo alla grande.

Ogni volta che il prete ordina di alzarsi o sedersi, lancio gli occhi nella valle del desiderio alla mia destra, nella speranza di andare qualche millimetro oltre quel neo. Così passano le due ore in chiesa. Le tette di Dana sono l’unica cosa che potrò raccontare del funerale di zio Marius. Ai pochi a cui potrò raccontarlo, ovviamente.

Dopo la chiesa si torna a casa, nel cortile, per la pomana, il super pranzo in onore del defunto. Inizio a pensare che quelle in chiesa fossero figuranti, e che nonna e zia siano restate qui a cucinare. Tempo due minuti e sulla tavola arriva qualunque piatto si possa trovare alla voce “cucina Romena”. Ogni parte del maiale è cucinata e presente, il profumo della ciorba mi ringiovanisce di trent’anni. Mi fermo a guardare un cesto di frutta, ci sono anche delle arance, le ultime ormai, e ricordo la prima volta che siamo tornati dopo la rivoluzione. Iniziavano ad arrivare prodotti occidentali a cui non eravamo pronti, papà portò a casa delle arance. Sembravano le solite arance comuniste, ma quando le aprimmo vedemmo che dentro erano rosse. Delle arance incredibilmente comuniste! Non avevamo mai visto arance così, nonna buttò l’intera cassa, convinta che fossero avvelenate. Nessuno le diede torto. Non erano né avvelenate, né comuniste, quelle arance, erano siciliane.

Se ci vedesse qualcuno da fuori, Emily per esempio, penserebbe ad una festa di paese, ad un compleanno, visto il cibo e l’atmosfera. È un funerale. E tra poco questa bella atmosfera da sagra primaverile mostrerà il suo lato oscuro.

Cammino nervosamente in attesa che il capo di tutto, nonna, dia l’ordine. Ma c’è ancora troppa gente, troppi vicini che si attardano a lasciare il ben di Dio che oggi gli è piovuto dal cielo. Faticano a mollare soprattutto le diverse bottiglie diţuica che Viorel ha distribuito.

Mi avvicino proprio a lui.

«Ma quando lo facciamo?»

Mi guarda con un’espressione tra lo stupito e il “devo insegnarti tutto, non sai più un cazzo, americano di merda”

«Eh…la noapte!» di notte. Beh, chiaro. Se devi fare un rito esoterico che manderebbe in analisi anche i Black Sabbath, non vuoi farlo al buio? Non ci facciamo mancare niente.

Per fortuna arriva Dana. O sfortuna, non so. Mi viene incontro, mi stringe come se dovessimo unirci come palline di pongo, mi prende la mano e mi trascina via.

Con l’ultimo grammo di lucidità riesco a sentire Viorel che canticchia «Andre-e-e-iii…A-a-andre-eiii…»

Il “Du-te-n pizda mătii” lo limito al pensiero per non urtare la sensibilità dei presenti.

Mi porta nel retro della casa, dove c’è ancora l’altalena che usavamo da piccoli, mi racconta, mi sorride, mi tiene le mani in un gioco che vorrei non finisse mai. La spingo sull’altalena, e ad ogni andirivieni cerco di trattenere sempre di più quella schiena perfetta, di aumentare il contatto allargando al massimo le mani, per sentire ogni cellula possibile. Ci sediamo nell’erba, ci spingiamo, dobbiamo davvero sembrare due fidanzati. Ogni movimento è una scusa buona per aumentare il contatto, per avvicinarci. E mi ritrovo a un centimetro dalla sua bocca.

Resisti.

Andrei.

Mezzo centimetro.

Emily.

Moglie.

Incinta.

Una morbidezza meravigliosa. Non ho più corpo, sono solo labbra, sono tutto in questo bacio che sogno da trent’anni. Sento il suo fiato, la sua lingua sorridente.

Stop.

Emily, cazzo!

Riesco a resistere.

Per circa quattro secondi.

Dopodiché mi ritrovo a schiacciarla contro il muro di casa, siamo una sola pallina di pongo, le mani finalmente possono sentire quanto è soffice quel maledetto neo.

Non stacco le labbra dalle sue, dal suo collo, dalle sue mani, se mi stacco perdo tutto, mi sveglio. Mentre con le dita cerco tutti i centimetri di Dana che non ho ancora visto, cerco anche quella dannata porticina che deve essere lungo questo muro. Lo so che c’è, me la ricordo, non voglio aprire gli occhi, ma serve un divano, un letto, e serve subito.

E a forza di vagare a tentoni la trovo! Finiamo ribaltati nella stanzetta buia, dove nonna tiene ancora i compot di frutta. C’è un divano!

Gli occhi si abituano all’oscurità dell’ambiente, lo splendido profilo di Dana si compone piano piano, già sul divano, il vestito disordinato lascia scoperta tutta la coscia sinistra, è la visione più sexy che abbia mai visto, e sta emergendo qui davanti a me, insieme al divano, agli scaffali, ai barattoli di conserve.

A zio Marius.

Merda!

Al centro della stanza, su due cavalletti di legno, lo zio nel suo astuccio ligneo.

Urlo, Dana ride. Mi tira a sé.

«Dai…non possiamo qui…col morto!»

«Se fosse vivo sarebbe peggio, no?» ride ancora, sospira, e non mi dà modo di controbattere perché la mia bocca è di nuovo piena, le mie mani anche. In un ultimo sussulto di coscienza realizzo che sto tradendo Emily, e che non sono in grado di fermarmi.

Mi perdo nel suo profumo, nel sudore che inizia a farci scivolare, nelle spalline del vestito da spostare, voglio baciare quel neo.

«Ahhhh! Ce dracu!»

Dana urla e fa un salto all’indietro. Apro gli occhi e la vedo terrorizzata, il respiro difficile la incurva.

«Lo hai sentito?»

Sì cazzo, effettivamente, l’ho sentito. Il rumore di un pugno, di un colpo contro il legno. Dana è pietrificata, si copre, indica con gli occhi la bara di zio Marius. Sembrava davvero venire da lì dentro. Guardo fuori dalla porta, non c’è nessuno. Rientro e il gioco è finito, il treno passato, l’incantesimo svanito.

Emily. Moglie. Approfittane.

Dana corre via ancora terrorizzata, non so come, ma zio Marius ha salvato il mio matrimonio. Io ci metto un po’ a ricompormi e a tornare in giardino, quando incrocio lo sguardo di Viorel, che forse ha visto Dana correre via, mi sintetizza la sua ricostruzione dei fatti:

«Tze…» sputa una buccia di seme di girasole «…bulangiu!» – frocio.

È buio, sono andati via quasi tutti, finalmente. Dana non è più tornata. Viorel è convinto che qualche bicchiere di ţuica non possa far altro che aiutarci ad affrontare la cosa. Non si deve impegnare molto per convincermi.

Nonna si precipita verso di noi, passo sicuro, militare. Arriva, prosciuga con consumata esperienza il mio bicchiere e annuncia l’irreparabile.

«A venit baba!» – la vecchia è arrivata.

Vecchia con la V maiuscola, data l’età e le decantate capacità occulte. Ci raduniamo nella stanzetta dove poche ora fa mi stavo mischiando con Dana. Viorel guarda il divano sfatto e mi lancia un’occhiata rassegnata. Aspettiamo. Tutti stanno in silenzio, c’è aria di solennità, mi adeguo. Entra lei, la baba. Non è solo vecchia, è una vecchia al passato remoto, un essere biblico, un esperimento scientifico. Avrà quattro-cinquecento anni. Indossa un ammasso di scialli neri che potrebbero avere più secoli di lei, cammina sorretta da un’altra donna, che riconosco, e ricordo già vecchia sedici anni fa. Sarà la nipote. Fa passi microscopici, considerando la velocità, o era nascosta in qualche armadio, o ha predetto la morte di zio almeno due settimane fa e si è messa in cammino. La pelle del viso è grigia, come gli occhi, sembra non avere pupille, a giudicare da come la sua accompagnatrice le guida le mani, non deve vedere niente. Borbotta parole in una lingua che mi giunge ignota, nonna però annuisce convinta e ordina a Viorel e me di aprire la bara. Poi spunta una terza vecchia un po’ meno vecchia, entra in scena con una cassetta contenente un martello e un paletto di legno. Sì, perché questa incalcolabile vecchietta, nonna di ogni nonna del paese, pianterà quel paletto nel cuore di zio Marius. Questo è il rito. Da questo volevo scappare. Perché lo facciamo? Beh, è chiaro, no? Per far in modo che non si trasformi in un vampiro! Tutto per quella cazzo di camicia. Quel sacco di liquido che ha concesso a zio una morbida venuta al mondo, e lo ha condannato ad una spigolosa uscita.

Mentre poso a terra il coperchio della bara mi chiedo se stia succedendo davvero. Vorrei quasi che Emily fosse qui, perché non ci crederà quando glielo racconterò, dirà come sempre che esagero, che ricamo romanzi sulle mie origini.

La vecchissima ha bisogno di qualche gradino per arrivare ad altezza Marius, servono due sgabelli e una cassetta di frutta. Apre i bottoni del morto, vorrai mica rovinare la camicia buona di zio, poi tira fuori dal suo ammasso nero una boccetta d’olio, che probabilmente gli ultimi ad usare sono stati gli apostoli. La puzza conferma. Riderei anche, se fosse un film. Invece si avverte una tensione malata.

La baba spalma con lentezza irreale quell’olio fetente sul petto dello zio, poi richiude, si fa passare palo e martello, e inizia a mimare il gesto. Si sta scaldando. La cosa più incredibile è come faccia questa vecchietta a reggere un martello che peserà più di lei.

Continua a mimare il colpo, si concentra, dice cose, poi anche le sue assistenti iniziano una litania, sempre più forte, si aggiunge anche nonna, convinta. Sale il volume di questa incomprensibile preghiera, guardo Viorel, lui capisce che cosa dicono? Vedo che muove le labbra. Cazzo, non solo capisce, sa anche cosa dire! Lo fa tipo bambino che non sa cantare al coro dell’asilo, muove la bocca senza fare suoni, un playback della morte. Non ho più appigli, solo sconforto, quanto ci mette sta baba a fare il suo lavoro?

All’improvviso il silenzio. Tutti zitti. La baba incamera un urlo e colpisce! Le urla che seguono, però, sono vere. Di terrore vero. Prima la baba, che cambia tono e trema sgomenta, poi nonna, poi tutti. Grida di spavento improvviso, lacrime che non facevano parte del piano, orrore non previsto. Perché non era previsto che, al conficcarsi del paletto nel petto, zio Marius tirasse su il busto, di scatto, come uno che si sveglia sapendo che è in ritardo, e afferrasse il braccio della baba per fermarla, prima di emettere un rantolo umido, gorgogliante, e afflosciarsi, per sempre, di nuovo. Questa volta per davvero.

Esco a vomitare.

«Vai de capul meu!» arriva Viorel, più divertito che scosso.

«Hai visto? Era viu!»

Sì. Era vivo, a quanto pare.

Non ho più avuto il coraggio di entrare nella stanza, ho abbandonato tutti, ma non ho nemmeno più dormito. Ho potuto quindi vedere la baba andarsene serena come un’imperatrice, con una busta sicuramente zeppa di banconote, una stecca di sigarette, due pacchi di caffè e una bottiglia d’olio. Nonna l’ha salutata e ringraziata, riverente e sottomessa come una serva.

Con la giunta del sole butto un occhio nella stanza, la bara è chiusa, definitivamente, così come definitivamente è morto lo zio.

Mi torna in mente quell’unico commento di Viorel su zio Marius, durante il viaggio in macchina: un bețivan, un ubriacone. Probabilmente aveva esagerato un po’ coi bicchieri, venerdì sera, nonostante fosse malato e costretto a letto per ventitré ore al giorno. Passo il resto della mattina a capire come possano, tutti, aver scambiato un coma etilico per una morte. La risposta è sempre la stessa: era morto!

Parlo con tutti, faccio domande, sembro un ispettore della polizia, ma alla fine la ricostruzione ufficiale, confermata anche da Viorel, è questa: zio Marius era morto, e quello che abbiamo visto è dovuto al fatto che, per colpa mia che ci ho messo tanto ad arrivare, si stava già trasformando in vampiro.

«Per fortuna la baba lo ha bloccato appena in tempo!»

Accenno, titubante, al fatto che forse dovremmo dirlo a qualcuno?

Il “Du-te-n pizda mătii” mi arriva a tre voci.

Ho bisogno di chiamare casa.

«Viorel, dammi le chiavi della macchina, scendo a Răchita, magari lì c’è segnale.»

«Ti porto io, non puoi guidare la mia macchina, non sei capace.»

«Ma ha solo il volante dalla parte sbagliata…»

«Non è per quello! È troppo potente per te!»

Scendiamo saltellando lungo la striscia di terra che riconduce al mondo, per tutto il viaggio tengo il telefono teso fuori dal finestrino, perché Viorel ha detto che appena prende, ci fermiamo. Risultato: siamo arrivati fino al paese e abbiamo la macchina piena di polvere.

«Pronto amore!»

«Ehi! Andrei, finalmente! Dove sei? Stai tornando?»

Mi serviva una voce squillante, ignara ed entusiasta.

«Tutto bene, dolcezza. No, ancora non sono partito, sono solo sceso al paese dove prende il telefono. Volevo sentirti.»

«Tutto a posto?»

«Sì…certo!»

«I tuoi parenti?»

«Stanno bene! Tutti in forma, più o meno…»

«E…avete fatto quella cosa?»

«Oh, sì! Lo abbiamo ammazz…lo abbiamo fatto!»

Ride. Meno male, tanto la verità non gliela dirò mai.

«Ma tu stai bene?»

«Sì, ho avuto solo male alla pancia ieri notte. Ho chiamato tua madre. Adesso sto bene, non preoccuparti!»

«Dai, domani sera sono a casa!»

Non vedo l’ora di essere a casa! Di partire da qui.

Rientrando torno sulla questione con Viorel: «Cazzo Viorel, non era ancora morto!»

«Nah! Era morto, te lo assicuro! E ad ogni modo sarebbe morto molto presto, non preoccuparti, Andrei.»

È anche medico adesso, Viorel.

«Hai ancora mezza giornata per scoparti Dana!»

«No, no. Meglio se non la vedo più, è bellissima, ma non voglio fare cazzate, è passata!»

Mi guarda con schifo.

«Dovremmo richiamare la baba, ma a te non te lo facciamo piantare nel cuore, il palo.»

Ride.

«Du-te-n pizda mătii!»

Rido. Ed è come seppellire questo capitolo sbagliato, buttare via un cioccolatino che non ti piace per provarne subito un altro.

Mentre saluto tutti sembro uno che sta scappando dalla polizia, mi guardo intorno continuamente, ho il terrore che spunti Dana da qualche parte. Nonna mi lascia partire avvertendomi di stare attento a mia madre, a mia moglie e a mia figlia. Ma non attento nel senso di averne cura, nel senso di temerle. Quando mi allontano scuote la testa per sottolineare il mio irrimediabile smarrimento.

Quando chiudo il bagagliaio la vedo spuntare, ferma, una statua, una modella. Viorel mi ordina con un cenno del capo di andare da lei.

È un saluto definitivo, per sempre, a chiudere questa accidentale parentesi che è sembrata celestiale, per un momento.

«Peccato…»

«Già…»

«Buon viaggio.»

«Già…»

Uno sfioro di labbra, e torna rinchiusa nelle mie fantasie, ormai non più solo adolescenziali. Salgo in macchina cercando di non incrociare lo sguardo di mio cugino, sento che sta per partire con qualche predica.

«Mamma mia! Mamma mia, Andrei!» infatti. «Ma l’hai vista bene? Guardala! E tu te la fai scappare! La lasci lì…e basta! Meglio che ti porto subito in America, perché se no ti spacco la testa!»

«Consolala tu…»

«Non mi vuole! Sono troppo uomo per lei! Du-te-n pizda mătii!»

Il sonno perduto lo recupero tutto sul volo Parigi-Detroit, e russo, eccome se russo. Quando mi sveglio e guardo la mia vicina di posto, lei riflette sdegno. Vorrei dirle che ho appena visto una vecchia ammazzare mio zio conficcandogli un palo nel cuore. Oppure potrei dirle che c’è mancato davvero poco, e il mio caro zio sarebbe diventato un vampiro. Mi limito ad un sorriso arrogante.

A Philadelphia riaccendo il cellulare, e vengo investito da una sinfonia di suoni che fanno a gara a farsi notare. Sei chiamate da Emily. Otto da mia madre. Dodici da numeri sconosciuti.

Cazzo.

Chiamo mamma, risponde mentre sto ancora portando il telefono all’orecchio, dice solo una cosa: «È nata!»

Taxi.

Ospedale.

Maternità.

Corro, chiedo, mostro assicurazione, corro.

Arrivo nella stanza e mi accoglie il sorriso più stanco e soddisfatto che abbia mai visto.

Emily alza le spalle. «Voleva uscire…»

L’abbraccio e la bacio, non esiste più niente.

«Dov’è?»

«Tra poco la portano, vedrai che bella!»

Passano pochi minuti e nella stanza entra una signora robusta, bassa, olivastra, con un sorriso che mette pace. Le braccia possenti spingono un carrellino con un minuscolo letto sopra. È lì che la vedo per la prima volta, dorme, di un sonno che nessuno vorrebbe mai disturbare.

L’infermiera riesce ad essere più felice di me, mi abbraccia, mi fa i complimenti, dice che la bambina sta bene ed è bellissima.

«Deve sapere una cosa, señor…»

Guardo Emily, fa una faccia strana…

«Señor…su hija nació con un pan bajo el brazo!»

Ho il terrore e la certezza di sapere cosa significa.

«La bambina è nata con il sacco amniotico intatto! Nella mia cultura, in Perù, è un grande segno di fortuna!»

Salta, mi abbraccia.

Io riesco solo a dire: «Wow…», ma vorrei tanto dirle: «Du-te-n pizda mătii!»