un racconto di Matteo Russolillo

 

Spinse la porta polverosa, il cigolio nascose il raschio di gola che emise per annunciare l’ingresso nel bar, impedendogli di disturbare il sottile borbottio di fondo. Sentì i primi sguardi cadergli addosso timidi, come quando ha appena iniziato a piovere, e le gocce si possono contare.

«Caporizzo!» gridò senza salutare, guardando lento da sinistra a destra. «Caporizzo Vincenzo!» aggiunse alzando ancora la voce. Nessuna risposta, solo un leggero aumento del vociare generale, un primo, esile, segno di attenzione, di allarme.

Gli fu sufficiente restare fermo immobile, mostrarsi sicuro, e qualcosa, dopo qualche secondo, si mosse.

«Vici! Vici! Vì ca ti vonnu.» disse l’uomo dietro al bancone, richiamando Vincenzo e indicando con la testa lo sconosciuto.

A quel punto, Vincenzo Caporizzo fu Giuseppe, per tutti solo ‘Vici’i Peppe’ si avvicinò all’uomo che lo aveva reclamato.

«E vu cu siti?» gli mormorò stretto.

«State tranquillo Caporizzo.» 

I sensi di tutti i presenti si rivolsero ai due uomini impalati a un passo dalla porta, iniziava a percepirsi, nell’aria satura di aglio e sigarette, che potesse succedere qualcosa. 

L’uomo rovesciò una busta di carta marrone, nella mano tesa di Vincenzo cadde senza rumore un sottile libricino rosso. 

«Il vostro passaporto!» scandì l’uomo in modo che tutti lo sentissero. 

«Buon viaggio!» aggiunse in tono ironico e sprezzante, prima di ritirarsi toccandosi il cappello.

Una nube di “Minchia!”, “Focu!”, “Cosa cosa?” e altri suoni carichi di stupore e dubbio si levò avvolgendo Vincenzo, finché una parola emerse da quell’impasto informe, imponendosi, facendo esplodere il silenzio.

«La Merica…»

Vincenzo, felice di stringere il documento tra le mani, ma sconvolto dall’essere al centro del più crudele dei palcoscenici, il Bar Mimmo, restò di sale. Perché adesso servivano i cugghiuni, perché non bastava avere il passaporto, perché alla Merica, ora, bisognava partirci. Iniziò con l’uscire dal bar trascinando i piedi.

Solo mezz’ora dopo, quando Bruno e Frisella, compagni di sempre, lo raggiunsero alla panchina, ricominciò a parlare.

«M’indi vaju!» disse guardando verso il mare, come un attore all’ultima battuta.

«Vici, dici davveru? E dove minchia t’indi vai?» rispose Bruno.

«E dove! Alla Merica!»

«America si dice, con la A, scimunito! E chin’ci vai a fari?»

«E proprio tu me lo chiedi? Che leggi il giornale tutti i giorni?»

Bruno Zumpano era considerato quello intelligente dei tre. Anzi, quello intelligente di tutta Bombaconi, perché passava gran parte della propria giornata seduto al tavolino fuori del bar a leggere l’unica copia disponibile della Gazzetta Calabrese, non importa di quanti giorni arretrata, Bruno era quello che “sapia tuttu”.

Anche Vincenzo sapeva leggere, lento, ci metteva il suo tempo, mentre Frisella non si era mai interessato, a lui, per dirla con le sue parole “Ci bastava l’intuito!”.

«Non daiu cchiù nenti, Bruno. Nenti!» lamentava Vincenzo, ed era vero.

«E quando sei alla Merica, che minchia fai?» lo stuzzicò Frisella.

«Sacciu eu? Là tutti trovano qualcosa da fare.»

«Eh! Diccillu a Ciccio Marra…quello se n’è scappato dalla Merica a gambe levate!» continuò Frisella.

«E cu è Ciccio Marra?»

«Unu!» rispose Frisella scostando la testa. «Unu i Farri.»

Ptu! Suonò all’unisono, mentre tutti e tre, rivoltisi di scatto verso il paese che li guardava dalla collina di fronte, si prodigavano in un sonoro e sdegnato sputo per terra.

«Ti pare che fazzu a fini di unu i Farri?» mormorò Vincenzo allontanandosi a passo lento, col passaporto rosso ben saldo in mano, mentre i suoi amici lo vedevano già distante.

«Bruno!»

«Dimmi Frisè.»

«Tu dici che parte?»

«Ma va!»

Bruno si dovette ricredere qualche giorno dopo, quando Vincenzo sbatté sul solito tavolino, coprendo il solito giornale, quello per cui aveva speso tutto ciò che segretamente aveva accumulato: il biglietto della nave.

Bruno alzò la testa, come ad accertarsi che quello in piedi fosse davvero Vici’i Peppe, poi lesse.

«Cosulich, società triestina di nav-» s’interruppe per riaprire il foglio piegato dal vento, il bel vento di aprile che iniziava ad essere caldo, e che di solito portava cose buone.

«Navigazione. Biglietto d’imbarco di terza classe. Palermo – New York, partenza il 20 maggio 1913. Focu!»

«Partu!» confermò Vincenzo, senza poter trattenere un sorriso colmo di speranza, gonfio di tutti i sogni messi in cantiere nelle ultime settimane.

«E questa Cosulich, chi sarebbe?» 

«Sacciu eu? Hanno le navi.»

«Triestina…mancu Italiani sunnu…»

«Ancora per poco amico mio! Trento e Trieste saranno Italiane!» irruppe Frisella, mosso da un moto d’irredentismo che probabilmente aveva colto ascoltando le conversazioni di qualche nobile fuori dalla chiesa.

«Ma tu che minchia ne sai, Frisè!» lo zittì Bruno «Piuttosto, Vici.» aggiunse «Vedi di non fare la fine del Titanic con questi triestini…»

«E cu è ‘stu Titanic?»

«Una nave grandissima, la più grande, è affondata l’anno passato. Inaffondabile la chiamavano…Inglesi di merda!»

«Mi jettasti a malanova?» sussurrò Vici aggrappandosi teatralmente agli attributi.

«Ehi, Vici!»

«Dimmi Frisè!»

«Ma quando sei alla Merica, come ci parli a quelli?»

«Sacciu eu? Parlo. Prima o poi qualcuno mi capisce.»

«E con le femmine come fai? Quelle non ti cacano proprio!» continuò Frisella ridendo. «E poi sono tutte scostumate!»

«E tu che minchia ne sai!» lo bloccò ancora Bruno. «Pensa alle tue di femmine, che ne tieni assai!»

«Se dico a Rosa che voglio andare alla Merica, quella prima mi scanna e poi con la carne ci fa le polpette alle bambine, mannaja!» 

Risero insieme, chi sguaiatamente, chi con amarezza, chi con malinconia.

Vincenzo arrivò nel porto di Palermo il 19 maggio 1913, il giorno prima della partenza. Nel lungo viaggio da Bombaconi aveva pensato e ripensato a tutte le informazioni che gli aveva dato Bruno, che, anche se in America non c’era mai stato, sapia tuttu.

«Vedi che quando arrivi, quelli ti controllano, ti visitano tutto, che hanno paura che ci porti il colera. Arrivaci bello pulito!»

«Quando arrivi a Nova Yorca, vedrai una statua grande, altissima, di una donna con una torcia. È la Statua della Libertà, il simbolo dell’America.»

E ancora «Nova Yorca è grande assai, non come Reggio o Palermo, stai attento!»

Al comune di Gioiosa gli avevano anche dato un elenco con gli indirizzi di diversi uffici di assistenza agli emigranti: New York, Boston, Philadelphia, Chicago, non potendo sapere dove sarebbe finito Vici’i Peppe.

Quando vide l’enorme nave che lo avrebbe accompagnato per quindici giorni, un gigante di ferro brulicante di persone, valigie, gru e corde, gli parve una pentola assalita dalle formiche. Tanti piangevano, molti salutavano, tutti gridavano. Tanta operosa confusione gli estorse la propria somma espressione di meraviglia.

«Mannaja a lu sindacu d’Arduri!» Dove fosse Arduri, a patto esistesse, e cosa gli avesse fatto il sindaco di quel paese, nessuno l’avrebbe mai saputo.

I primi giorni di mare passarono lieti, riposò, fece amicizia con altri calabresi, comprò al mercato nero una lametta e una saponetta, perché all’America ci voleva arrivare bello pulito, vinse anche qualche lira alle carte.

Iniziò a prendere contatti con chi era più esperto, chi aveva già fatto il viaggio, o chi aveva qualche cugino ad aspettarlo. Alcuni gli avevano promesso un bel lavoro alle ferrovie, altri un bel posto nell’agricoltura, altri ancora gli avevano detto di rimanere in città, che c’era sempre bisogno di gente fidata. 

Superata la metà del viaggio però, la vita si era fatta difficile: dormire era impossibile, immerso nella puzza di vomito, malattia e cipolle marce della terza classe, tra pianti di bambini e urla di gente che impazziva o provava a scannarsi. Gli avevano fottuto due volte lamette e saponette, e alle carte era meglio non giocasse più, così gli avevano consigliato.

Anche il fascino dell’occupazione era svanito, il lavoro alle ferrovie sarebbe stato scavare gallerie con l’esplosivo, il buon posto nell’agricoltura significava raccogliere cotone a cinquanta gradi, e il rimanere in città tra persone “fidate” significava che c’era da scannare qualcuno. 

Fu la notte del primo giugno, quando mancavano solo tre giorni a New York, e Vici iniziava a guardarsi spesso allo specchio, per sicurarsi di esser bello pulito, che successe il finimondo.

Dormiva come al solito a pancia sotto, con la busta dei soldi e dei documenti ficcata bene sotto la camicia per non farsela fottere, quando venne svegliato dal rumore più forte che avesse mai sentito, a cui si aggiunse un imperioso scroscio d’acqua, come una cascata. Quando iniziò a raccapezzarsi, assicurandosi di avere la busta ben salda sul petto, la gente intorno aveva già iniziato a correre, gridare e piangere, ma soprattutto a pregare.

«Affondiamo!» sentì urlare, e iniziò a sentire acqua sotto le scarpe malandate.

Focu meu u Titanic, mannaja a Bruno, pensò. E fu l’ultima cosa che riuscì a pensare, prima di finire diluito nelle urla, nelle spinte, nelle maledizioni, nell’acqua gelida che saliva.

Giunse senza volere all’esterno, spinto da una massa di paura e disperazione, e sempre senza pensare, sempre più pressato contro la ringhiera di metallo che gli toglieva il respiro, scavalcò e si buttò.

Il gelo che lo avvolse parve bloccargli i pensieri, appena riemerse iniziò a battere i denti, era senz’aria. Provò a fare quello che sapeva fare meglio, nuotare. Nuotare verso il buio, verso il niente, con il freddo che fu impietoso nel negargli presto ogni forza. Vide una forte luce azzurra, la fissò incredulo, poi tutto si spense.

Quando Vici riuscì ad aprire gli occhi, si ritrovò a fissare una parete bianchissima, lucida e liscia come nemmeno il marmo della chiesa. Agli orecchi gli giungevano suoni acuti, metallici, non era musica ma nemmeno rumore. Alzò leggermente il capo, si scoprì in un letto bianco e liscio come la parete, molto sollevato dal pavimento, tanto che ebbe paura di cadere e si scosse in un fremito. Come si mosse venne investito nuovamente da quella luce azzurra, i suoni aumentarono fino a renderlo sordo, serrò gli occhi, e fu ancora il buio.

Al nuovo risveglio ebbe il tempo di guardarsi. Era sempre steso sul letto, completamente nudo, ma non aveva freddo. E a pensarci bene nemmeno sete o fame, e non provava nessun dolore. Provò a muovere un braccio, non fu possibile. Provò a parlare, ma non produsse nessun suono. Altra luce, altro buio.

La volta successiva si trovò il corpo pieno di piccoli tubi, li vedeva emergere da sotto il letto, correre lungo le gambe e le braccia per poi svanirgli nella pelle. Pensò di dover urlare dal dolore, ma non sentiva nulla, anzi, non si era mai sentito così bene.

Ma certo, le visite, pensò all’improvviso! Per il colera e le altre malattie, Bruno glielo aveva detto. Gli americani lo avevano salvato e lo stavano visitando, forse curando. Ce l’aveva fatta!

«Ehi! Grazie! Americani!» fu quello che pensò e tentò di gridare, ma ne uscì appena un rantolo che nessuno avrebbe sentito.

Passarono quelli che Vici non riuscì a distinguere tra minuti e giorni, non capiva quando dormiva e quando si svegliava, non mangiava e non aveva fame, non beveva e non aveva sete, non pisciava e non cacava. Se non altro riusciva a muovere le dita, lo prese come un buon segno.

Improvvisamente, accompagnato da un impercettibile fruscio, nella parete bianchissima di fronte al letto, Vici vide aprirsi una porta. O quella che doveva essere una porta, anche se non aveva maniglia, né pomello, né serratura. Era come se ci fosse sempre stata, ma era sicuro di non averla mai vista. Entrarono due figure, altissime, che pensò essere due suore, viste le lunghe tuniche. D’istinto provò a coprirsi i genitali, ma solo le dita delle mani si mossero verso il suo corpo, non le braccia.

«Sorelle…» provò timido. 

Quelle non diedero segno di averlo sentito, ma gli si avvicinarono. Erano suore molto strane, tenevano il viso coperto con strane maschere lucide, e vista da vicino la tunica non sembrava né di cotone né di seta, il tessuto sembrava morbido e duro allo stesso tempo.

«Vincenzo.» disse, cercando di presentarsi. «Italiano.»

Non ottenne reazione.

Solo dopo qualche minuto, quando le due figure lo lasciarono nuovamente solo, ragionò su un fatto strano. Se il letto era così alto da non riuscire a vedere il pavimento con la coda dell’occhio, e visto quanto imponenti gli erano parse le due suore, quanto erano alti questi americani?

Le strane visite continuarono: un giorno una di quelle monache si presentò con quella che a Vici parse una lampadina, ma quadrata. L’oggetto disegnava una linea sottile di luce verde sulla sua pelle. Sentì un leggero pizzicore proprio in quel punto. Poi la suora fece andare su e giù quella linea verde lungo tutto il corpo di Vincenzo, che provò a urlare, protestare, ma quella proprio non lo sentiva. Si rammaricò di non aver ascoltato Bruno, di non essersi impegnato ad imparare almeno quattro o cinque parole di americano.

Un indecifrabile tempo dopo si svegliò senza più tubi attaccati al corpo, e con una sensazione di grande benessere. Fece il solito tentativo di rizzare il busto, e questa volta, si alzò. Mosse le braccia, le mani, le gambe, tutto funzionava. Era guarito, bravi questi americani!

Buttò le gambe giù dal letto, e finalmente gli riuscì di guardare il pavimento, era almeno tre metri più in basso.

Mentre si apprestava a saltare giù, il fruscio annunciò l’apertura della porta. Entrarono le solite suore (o almeno a lui così sembrava) e una terza figura, simile alle altre due ma con la tunica di colore diverso.

«Posso andarmene?» disse.

Quello di colore diverso fece un passo verso di lui, anche se non aveva proprio fatto un passo, si era solo mosso. La figura fece un cenno verso Vincenzo, che immediatamente sentì una stretta poderosa alla testa. Gridò, si strinse le tempie tra le mani e iniziò a piegarsi su se stesso dal dolore. Mentre a modo suo pregava che qualunque cosa gli stessero facendo cessasse, gli spasmi lo spinsero scomposto sul bordo del letto facendolo precipitare in una posa scoordinata. Vici avvertì l’accelerazione della caduta, ebbe solo il tempo di preoccuparsi, poi non sentì più nulla, né il dolore, né la caduta. Aprì gli occhi e quello che vide lo spaventò più della caduta stessa. Non era caduto, era fermo immobile, così scomposto in quella posa da pupazzo, a mezz’aria, a due metri dal pavimento. Volava.

«Focu meu!»

Cercò con gli occhi la suora, l’avrebbe definita strega a questo punto, e quando la trovò, con lo sguardo che chiedeva spiegazioni, quella si limitò a muovere lentamente la testa, e con la testa, lo fece fluttuare nella stanza. Nel volo poté vedere la parete dietro al letto, c’era una grande finestra tonda, vide la notte fuori. Quando fu più vicino al vetro, scorse qualcosa che gli gelò il sangue. Non c’erano strade, luci, grattacieli o statue giganti. Era tutto cielo di notte, sopra e sotto, a destra e a sinistra. Lontana, così sembrava, una strana palla blu e bianca era ferma in quel cielo nero.

Voleva protestare, gridare e mandare tutti al diavolo, ma il terrore e lo stupore lo rendevano muto, vuoto, semplicemente in attesa.

Un fruscio accompagnò l’apertura di una seconda porta, questa volta sul pavimento, Vici fu posizionato a mezz’aria al centro del grande foro, dentro al quale non riusciva a distinguere nulla. Le tre figure maledette uscirono, e Vincenzo si sentì cadere, veloce e forte come non era mai caduto.

Prima di stringere gli occhi e appallottolare il corpo per la paura, ebbe il tempo di vedere qualcosa, sotto il pavimento che stava attraversando. Fu un lampo, un’istantanea, che però si fissò nella sua mente come la cosa più angosciante che avesse mai visto. In una grande sala, nudi e immobili, stavano in piedi centinaia di uomini come lui. Ma non come lui in quanto uomini. Come lui Vincenzo Caporizzo. Esattamente, come lui.

Riprese conoscenza mentre due mani possenti lo issavano per le ascelle, e l’acqua salata scivolava via dal suo corpo ormai bluastro.

“Saltry II”, il nome del peschereccio per il pescespada che lo avvistò, lo tirò in salvo e lo condusse nell’unico posto dove poter scaricare uno che ripeteva solo “Vincenzo Caporizzo” e “Italiano”: Ellis Island.

Alla vista della enorme statua, Vici ebbe il primo sospiro di sollievo da quando era partito, si sentì finalmente arrivato. Bruno sapia bonu, pensò.

Qui le sue condizioni sorprendentemente buone destarono stupore e incredulità, considerando le circa trentasei ore passate a mollo nell’acqua gelida. Ma per quante domande gli ponessero, lui non ne capiva una, e ogni volta che provava a spiegare cosa davvero gli fosse successo, i suoni gli rimanevano sepolti in gola, o forse ancora più in profondità.

Lo visitarono due suore, questa volta senza alcun dubbio, con tanto di velo e crocifisso, anche se a comprensibilità e buone maniere non si scostavano molto dalle altre. Gli venne fatto un nuovo documento provvisorio e fu indirizzato in un centro di sostegno per italiani, dove scoprì con amarezza che molti di questi parlavano lingue che riusciva a comprendere non più dell’inglese: veneti, friulani e liguri erano al pari di americani, tedeschi e polacchi.

Dopo alcune settimane gli affidarono un lavoro nel porto di Manhattan, dodici ore di scarico e carico, le cui uniche pause erano gli scontri e le risse con gli altri gruppi di stranieri, e dove capì che alla fine, l’America tanto sognata, non sembrava ricambiare i suoi sentimenti.

Ma per Vici i ritmi forsennati delle ore di lavoro e la stanchezza stroncante che gli rimaneva addosso la sera, impastata alla polvere e al grasso, erano un modo per non pensare, per non ricordare quell’esperienza a cui non riusciva a dare un senso e sulla quale preferiva non rovinarsi il cervello con questioni irrisolvibili.

La prima paga, per quanto misera, gli diede una boccata di vita vissuta. Entrò per la prima volta in un bar, rigorosamente per italiani, per concedersi un bicchiere di vino, e in una bottega comprò carta e inchiostro. Impiegò diverse serate per scrivere la prima lettera a Bruno, raccontò del naufragio, delle visite, del lavoro e non mancò di inserire nella busta una cartolina raffigurante la Statua della Libertà. Quello di cui non disse nulla erano le apparenti ore, che per lui furono giorni o forse settimane, passate disteso su quel letto bianco e liscio, le strane suore, la palla volante e quell’ultimo devastante dettaglio, che preferiva sciogliere nell’illusione di un incubo: i mille Vici schierati come un esercito di statue.

La vita di Vincenzo in America si mosse come una locomotiva, lenta e pesante in partenza, ma retta e regolare una volta lanciata sul binario giusto. Negli anni che seguirono riuscì faticando a staccarsi da quell’alone di povertà che lo aveva sempre avvolto, restando onesto, evitando i “bisniss” che gli venivano proposti da improvvisi amici, la Mano Nera, le risse coi neri e coi bianchi. La guerra, quella non poté evitarla, ma per quanto orribile lo restituì senza un graffio e molto più americano di prima.

Dopo il conflitto, Vincenzo trovò più rispetto e serenità, e sentì di aver finalmente trovato quell’America che si aspettava. Il 20 Giugno del 1922 prese in sposa Lucia Arena, giunta a New York da Pietrapennata, e per quanto ne fosse innamorato, nemmeno a lei raccontò mai quanto vissuto tra il naufragio e il salvataggio.

Una sola cosa minava la sua serenità: iniziò ad avere spaventosi incubi dai quali si svegliava urlando in preda alla disperazione. Incubi terribili in cui moriva violentemente, sempre in modi diversi. A volte si sentiva bruciare da un calore asfissiante, altre percepiva la vita abbandonarlo in un gelo infinito, altre ancora sentiva i polmoni riempirsi di fuoco lasciandolo in preda a tosse e spasmi di agonia.

Si destò rigirandosi e coi denti serrati per il dolore, il braccio sinistro in fiamme. Lo seppe ancor prima di aprire gli occhi, passò lieve le dita sulla pelle, si sentì trafiggere da mille aghi. Dal gomito al polso, una striscia rosso vivo di pelle raggrinzita che pareva carta stropicciata. L’ennesimo segno che gli lasciavano quegli incubi, cristallizzati in ferite e cicatrici del tutto reali, di cui non era a conoscenza quando si era coricato la sera. 

«Ancora ti feristi? Malanova

Lo apostrofò dura Lucia, stanca di tutti quegli acciacchi.

«Cu’u carbuni mi bruciavu

«E perché non la medicasti ieri sera?»

Vincenzo si limitò a un cenno di dissenso, cercando di minimizzare.

«Buono a nulla sei! Più che al lavoro pare che vai ancora alla guerra.»

Vincenzo alzò le spalle, coprendosi l’ustione. Più tardi, al caposquadra, avrebbe indicato proprio la guerra come fonte di quella piaga, in equilibrio sulla ormai consolidata altalena di menzogne.

Col tempo gli episodi si intensificarono, e agli incubi si affiancarono rari sogni di spazi meravigliosi, luoghi incantevoli che però, al risveglio, gli era impossibile descrivere persino a se stesso. 

Vici iniziò a sembrare “strano”, divenne presto scimunito, per arrivare a essere definito niscitu pacciu completamente. La comunità calabrese iniziò ad allontanarlo, per ripudiarlo definitivamente nel 1927, quando, con il pretesto che non fosse buono nemmeno a dare dei figli alla bella Lucia, la famiglia di lei ricorse a una cosa di cui in Italia non si poteva nemmeno parlare: il divorzio.

Poi venne la crisi economica, e venne un’altra guerra, coi ragazzi americani che gli raccontavano come avevano liberato l’Italia passando anche dal suo minuscolo paese. A volte Vincenzo sentiva quasi il desiderio di tornarci, per poco, per andare in cerca di Bruno e Frisella, dai quali non riceveva più lettere dalla fine della prima guerra. Potevano essere morti, o forse si erano sentiti traditi dal suo mancato rientro per combattere con l’esercito italiano. Avrebbe potuto consegnare a Bruno quella lettera scritta tanti anni prima, l’unica rimasta chiusa nel cassetto e mai spedita, quella in cui raccontava cosa gli fosse successo veramente prima dell’America. E forse, potendogliela leggere guardandolo in faccia, avrebbe potuto convincerlo a non crederlo pazzo. Ma la paura di riaffrontare l’oceano era troppo ingombrante, e l’idea di salire su un aereo non lo sfiorava nemmeno.

Venne una seconda moglie, Kelly, americana “al cento per cento” come piaceva dire a lui, che sopportò con affetto gli incubi, le grida, le strane ferite e l’evidente sensazione che Vincenzo tenesse dentro di sé un segreto più grande di lui.

Venne un nuovo lavoro, dignitoso, con sottoposti americani, che lo condusse ad una pensione di rispetto.

E venne il 20 Settembre 1967.

Vincenzo, settantaquattrenne in splendida forma, passeggiava lungo l’ottantaduesima strada, quando in una vetrina di un negozio di elettrodomestici vide qualcosa che lo pietrificò. I diversi televisori esposti trasmettevano all’unisono, sulla banda rossa in sovraimpressione, tipica delle notizie importanti, scorreva questo messaggio: il telescopio DODGE della NASA ha trasmesso oggi la prima immagine a colori del nostro pianeta visto dallo spazio. 

Al centro di tutti quegli schermi, la palla volante blu e bianca nel cielo nero, proprio quella che aveva già visto 54 anni prima.

Per l’occasione, Vici dimenticò il suo ormai perfetto inglese lanciando un sonoro «Mannaja a lu sindacu d’Arduri!»

Fu come una rivelazione, e nei secondi che seguirono Vincenzo ebbe coscienza di tutti quegli incubi, sogni e ferite. Di tutti quei mondi, quelle palle volanti, sui quali chi lo aveva prelevato aveva scaricato gli altri Vici, per verificare se fossero ospitali o meno, vivibili o letali. Mosse qualche passo all’indietro, con la testa in alto, per allontanarsi dai palazzi e riuscire a fissare il cielo azzurro, poi, lanciando lo sguardo più in alto che poté, mormorò:

«Almeno un grazie, mannaja