un racconto di Nivasio Dolcemare

Che sapore aveva il corpo di Cristo? Arturo Meyer, con un lieve rimescolio nello stomaco, se lo chiedeva da giorni. Aveva avuto il coraggio di parlarne solo con il nonno Ruggero e la risposta che aveva ricevuto lo aveva lasciato insoddisfatto. Adesso si aggirava per il corridoio di Corso Mazzini, una galleria d’ombra nella quale raggi erratici guizzavano come pesci rossi in un acquario, ed era incerto se andare di nuovo in bagno o correre il rischio di un contrattempo durante la cerimonia. Fuori dalla finestra, sul lato interno della casa, il fogliame in controluce del platano, che il nonno aveva piantato più di mezzo secolo prima –  o almeno così raccontava – splendeva come il rosone di una cattedrale. I suoi genitori si stavano vestendo in camera, mentre lui era già pronto: la camicia, la lavallière che aveva preteso al posto della cravatta, e dei pantaloni al ginocchio di lana cotta scozzese con le pinces. Era anche già stato pettinato, ma forse una sistemata al caschetto non sarebbe stata superflua.

Sentì la voce di sua madre, Arianna, provenire dalla camera: «Arturo!! Sei andato a fare pipì?»

Anche se ci era andato, alla fine la cautela prevalse. Spalancò la porta del bagno con una bruschezza repentina come la sua decisione. Inutile negarlo, Arturo era suscettibile a slanci improvvisi – vele che, appena issate, si gonfiavano come palloni aerostatici sotto l’effetto della sua volontà. Ci fu un urlo e Arturo intravide Sofia, seduta sul water, che s’accartocciava per sottrarsi alla sua intrusione. Richiuse la porta, quasi spaventato. Da quando Sofia era diventata grande, la promiscuità edenica della loro relazione si era complicata in un modo per lui non del tutto comprensibile, sebbene sua madre insistesse nel ripetere che era normale. Sofia non voleva più mostrarsi nuda ad Arturo e, per una strana forma di equità, cercava di non capitare dalle parti del fratello quando il suo corpo minuto si offriva a un impietoso esame, con le costole che gli si potevano contare sul torace come le stecche di un ventaglio.

La ragazza, che, un istante dopo, usciva dal bagno, era un’altra persona. Era come assistere alle successive metamorfosi di un lupo mannaro in una notte di luna. Si sarebbe aspettato di vedere il vestito malachite dalle maniche a sbuffo ridotto in brandelli, invece, eccola di nuovo in incognito: i capelli di un castano lucente divisi da una scriminatura regolare, le iridi di un verde cavalletta, il naso leggermente camuso che, di nascosto, Sofia cercava di correggere, strizzandone la punta con le dita, la fronte alta e convessa, il disegno cuoriforme delle labbra. Come se non bastasse, era tremendamente intelligente, gli tendeva continui tranelli e lo sottoponeva a test, e Arturo se ne rendeva conto solo quando scopriva di non averli superati. Mentre faceva pipì, tentava per l’ennesima volta di scendere a patti con le esigenze di un mondo, in cui sua sorella era regina incontrastata.

Trovò Sofia che lo stava aspettando sulla porta e gli rivolse la parola con un brio sospetto: «A proposito, Artie, vorrei raccontarti una storiella che penso ti possa davvero preparare alla prima comunione».

«Sentiamo».

«Ci sono, tipo, questi due principi greci che sono fratelli, Atreo e Tieste. Per ragioni che adesso non ci interessano, vengono maledetti dal loro padre. Insomma, a farla breve, la moglie di Atreo tradisce il marito con Tieste e, per fargliela pagare, Atreo fa uccidere i suoi figli e glieli serve in tavola da mangiare. Una normale questione di famiglia»

Arturo rimase interdetto senza capire di preciso a cosa mirasse Sofia.

«Beh, se fossi in te, io ci penserei un attimo a questo episodio di cannibalismo, quando mangerai l’ostia. Non lo trovi raccapricciante?»

Il nonno Ruggero con la sua consueta autorevolezza gli aveva detto di non preoccuparsi: l’ostia aveva una consistenza neutra, cartacea, e si sarebbe sciolta sulla lingua. Arturo la fissò di nuovo inebetito, sforzandosi di non dare a vedere che era spaventato e, soprattutto, che non sapeva cosa significasse “raccapricciante”.

Soddisfatta, Sofia si allontanò da lui, ma ebbe un ripensamento e aggiunse: «Ah a proposito, con quel cravattone sembri un imbecille!».

Quando uscì dalla chiesa, tra i parenti che gli si stringevano attorno, tirò un sospiro di sollievo, non soltanto perché poteva sbarazzarsi del saio che gli pizzicava la pelle, ma perché durante la comunione nessuna bestemmia aveva tuonato nel suo cervello. Quando aveva provato a parlare di questa tendenza a “insultare dio” con il prete che lo aveva confessato per la prima volta – un evento alquanto angoscioso –, c’era stato un equivoco. Per una deformazione professionale il confessore aveva interpretato le sue parole alla stregua di una metaforica melensaggine, e lo aveva invitato a non “insultare più dio” con i suoi comportamenti “peccaminosi”. L’aggettivo era semplicemente assurdo! Sembrava che, anziché parlare di lui, Arturo, si riferisse a uno di quegli episodi biblici, che leggevano a catechismo o a scuola, racconti tanto arcaici e impermeabili alla realtà quanto una fiaba, oscure concentrazioni di materia che avevano il potere di alterare drasticamente il suo campo gravitazionale.

Viale delle Rimembranze, con la doppia fila di ippocastani, era immerso nell’ombra. Superando il portale di Santa Maria Ausiliatrice, si aveva quasi l’impressione di rimanere al chiuso. Lo zio Berto, in verità un cugino di grado imprecisato, gli stava alle calcagna con la sua dannata fotocamera. Cercava di fotografarlo senza farsi notare, ma il flash ogni volta lo tradiva. Nico, il più grande di tutti i cugini, e il più fascinoso, disse ad Arturo di fregarsene («È un coglione!»). Sofia ridacchiò, mentre Arturo fu scosso da una simile mancanza di rispetto nei confronti di un adulto.

«Arturo! Vieni qui che ti pettino!».

La nonna Elide non avrebbe trovato pace finché non avesse spruzzato tutta la lacca necessaria per evitare che la frangia gli ricadesse sulla fronte come il cocciuto afflosciarsi di un ombrello rotto. A nulla serviva che il nonno provasse a frenarla, invitandola a lasciarlo in pace. Senza dubbio il nonno Ruggero era il suo preferito, e non c’entrava soltanto il fatto che fosse un grande affabulatore. Gli aveva fatto credere che discendevano da un casato austroungarico, dal barone Von Mayer (la particella nobiliare si era poi staccata dal loro cognome come un vecchio stucco dal soffitto). Scavalcando il Tirolo – nelle parole del nonno suonava come la cosa più facile del mondo –, avevano trovato un enorme castello a picco su un lago dalle acque color myosotis, almeno nei crepuscoli invernali, e il propagarsi di un inconfondibile calore nel petto lo aveva proclamato a gran voce: erano a casa! Ad Arturo, peraltro, era parso naturale che il ramo paterno della sua famiglia fosse aristocratico; era una logica spiegazione dell’innata maestà del nonno e della sua compostezza, che suscitava tanta meraviglia nelle madri degli amici. E non aveva a che fare con i frequenti regali che il nonno gli faceva senza un preciso motivo (esisteva qualcosa di più eccitante di un regalo che non ti aspetti?). La ragione era che il nonno Ruggero irradiava una bontà non incrinata, come a volte capita, da un’indulgenza che potesse invitare alla mancanza di rispetto, ed era tutt’uno con la sua imponenza, i suoi occhi azzurro-argentei, la sua favolosa ricchezza, il timore che sapeva incutere nei suoi tre figli quando voleva.

«Mettetevi vicini che faccio una foto a tutti i cugini Mayer!» li incalzò lo zio Berto. Come per una fucilazione si disposero lungo il muretto, Nico, Sofia, Arturo e le gemelle (Giulia aveva un nastro bordeaux nei capelli, Giada arancione, o era il contrario?), mentre Giovanni, un cugino di parte materna, li guardava da una certa distanza, con aria vagamente afflitta. Arturo, un istante prima dello scatto, si assicurò che la sua lavallière fosse a posto.

Con lentezza esasperante percorsero il tratto di strada che li separava dalla casa di Corso Mazzini, dove in giardino, sotto una pergola sovraccarica di glicine, li aspettava la tavolata per il pranzo. Tra le sedie di vimini si aggiravano delle galline rissose che cercavano di pugnalarsi a vicenda, con colpi di becco ben assestati. Giulia e Giada le rincorsero per scacciarle.

Suo padre, Aurelio, quando furono tutti riuniti intorno al tavolo, propose di consegnare i regali al festeggiato. La zia Lavinia e suo marito Mario gli diedero una stilografica d’argento con rifiniture in oro. Sul cappuccio figuravano le sue iniziali: AM. La sorella minore di papà, la zia Virginia, si muoveva nel disordine come un calamaro nel suo inchiostro e si era dimenticata di fargli il regalo (il marito ovviamente non c’era, come in tutte le riunioni familiari successive al divorzio). Di lì a una settimana sarebbe arrivato a casa un pacco oversize con chiari intenti espiatori. Tra Nico e sua madre ci fu uno sguardo d’intesa. A seguire, ciascuno gli porse un regalo, nessuno per fortuna davvero intonato alla circostanza, salvo il regalo dei nonni che era un cimelio di famiglia: un massiccio anello con sigillo appartenuto a uno dei primi baroni Von Mayer. Da ultimo gli toccò il regalo dei suoi genitori, un computer. Prima che potesse precipitarsi ad abbracciare suo padre e sua madre, Mario raggelò l’atmosfera con una domanda a bruciapelo: «Ah caspita! Un regalo molto costoso, chissà dove li avete presi i soldi!». Seguì un silenzio teso come un’aritmia, che fu dissipato dalla risata provvidenziale dello zio Berto. Arturo fece in tempo a vedere lo sdegno sul volto di nonno Ruggero.

Lo sbracamento era generale. Alcuni invitati si erano alzati da tavola. Giulia e Giada senza più nastri nei capelli, e perciò indistinguibili, torturavano le galline da una buona mezz’ora. Arturo decise di andare in cerca di Sofia. Come aveva immaginato, la trovò in uno degli angoli più remoti del giardino, un recesso antistante alle stalle in disuso e riparato da una siepe fitta. Il profumo del glicine era fortissimo, come raccolto nel palmo di una mano. Sofia era in compagnia di Nico che stava fumando una sigaretta, ma prima che Arturo desse voce al proprio sconcerto (da quando fumava? E la zia Virginia lo sapeva?), gli franò addosso Giovanni. Vedendolo alzarsi e non sapendo che fare, lo aveva seguito fin lì senza che lui se ne accorgesse. Sofia e Nico scoppiarono a ridere e, mentre Arturo si rialzava con un senso di dignità calpestata, il cugino passò la sigaretta alla sorella, che, fatti due tiri, gliela restituì. Adesso ciò che Arturo provava era vero sgomento.

Nico aggiunse: «Ah, mi raccomando, acqua in bocca!». Giovanni si portò istintivamente le mani alla faccia. Arturo, suo malgrado, assentì, siglando un patto di cui gli sfuggivano i termini e, per inerzia, chiese comunque: «Che cosa fate?». I due si guardarono e fecero spallucce. Nico aveva una parvenza uccellesca nel profilo aguzzo, nel ciuffo, nella magrezza estrema, nella felice mescolanza di goffaggine e grazia.

«Sai perché lo zio Mario ha fatto quella domanda, prima, a tavola, quando mamma e papà ti hanno dato il loro regalo?»

«Sì, penso, cioè no…»

«Te lo spiego io perché. È ora che tu sappia certe cose, sei abbastanza grande. Nonno e nonna non lo hanno mai considerato un buon partito per la zia Lavinia, la loro adorata primogenita, perché era di famiglia modesta e piuttosto ignorante. A dirla tutta, lo è ancora, ignorante, come ti saresti accorto se avessi iniziato il liceo.» – Nico ascoltava la conversazione annuendo a tratti con convinzione, mentre Arturo fissava la sorella concentratissimo – «Insomma, era talmente malmesso che il papà doveva prestargli lo smoking nelle grandi occasioni, anche se non hanno esattamente la stessa taglia. E adesso che è diventato più ricco di tutti e sa che noi siamo un po’ in ristrettezze, ce lo fa pesare tenendoci il fiato sul collo…»

Arturo aveva la sensazione che il fumo gli provocasse la nausea e non sapeva cosa dire. Le sole parole che spiccicò furono: «E il nonno lo sa?». Non era forse il compito del patriarca vigilare sulla concordia del suo clan?

«Certo che lo sa! Non hai visto che occhiata di fuoco gli ha scoccato?»

«Già, proprio così» commentò Nico. Sporgendosi verso Sofia e, allontanando un ramo che lo intralciava, la baciò a fior di labbra.

Arturo per un giorno solo ne aveva avuto abbastanza. Un po’ stordito tornò a tavola. Giovanni, come un sonnambulo, lo seguì.

Chissà che fine aveva fatto la cialda sottile dell’ostia nel suo stomaco rimpinzato a più non posso, nel quale avvertiva una spinta che premeva contro lo sterno. Adesso era il momento della torta, una sovrapposizione di crema chantilly e di pandispagna cinta da un contrafforte di panna. Ad Arturo fu servita una fetta abbondante e lui, meccanicamente, si mise a mangiarla. Aveva quasi finito quando lo raggiunse la petulante voce dello zio Berto: «Una foto del comunicando con la torta! Sorridi!». Sollevò lo sguardo dal piatto e lo vide appollaiato dietro alle zie che parlavano tra loro, ignorandolo, come se niente fosse. Increspò le labbra in un sorriso incerto sottolineato da un tragicomico baffo di panna. Dopodiché gli venne il primo conato. Giovanni, che gli sedeva accanto, si sentì male e vomitò a propria volta.