Ho avuto la fortuna di conoscere Giorgio Fontana di persona, qualche mese fa. Di lui, mi hanno colpito i modi decisi e riservati, intrecciati a una grande dose di ironia e di voglia di ridere: perfettamente a suo agio nei panni dell’insegnante puntuale e severo, non vedeva l’ora di raccontare la passione con cui si dedica a sceneggiare le avventure di Topolino.

Qualche settimana dopo averlo incontrato, ho letto il suo fortunato Morte di un uomo felice (Sellerio, 2014), premio Campiello e romanzo di cui si è discusso a lungo. Il protagonista di questa importante storia è Giacomo Colnaghi, giovane magistrato nella Milano del 1981, impegnato sul fronte caldo e pericoloso del terrorismo di matrice politica.

Credo che questo sia un piccolo capolavoro, una vera perla. Equilibrato, ricco di una prosa elegante e coinvolgente e, soprattutto, animato da personaggi “più vivi dei vivi”. La rotondità con cui Fontana riesce a dipingere gli attori della sua trama è tanto potente da far affezionare subito il lettore: mi sono sentito coinvolto nelle vicende di Colnaghi come non mi capitava da tempo, come succede solo con i grandi autori.

Ho deciso di intervistare Giorgio per Wertheimer, di parlare con lui di questo libro, del suo scrivere e di letteratura. Lui ha gentilmente accettato. Ecco la trascrizione della nostra chiacchierata.

 

– parliamo di Morte di un uomo felice. Era parecchio tempo che non empatizzavo così tanto con un personaggio di fantasia. Colnaghi (il magistrato protagonista del romanzo) è un uomo complesso che ha una visione, un’etica chiara, cristallina anche se complessa.

Conoscendoti, ho visto molto di Colnaghi in te, o, forse più appropriato, di te in Colnaghi. Ecco, spostandoci dal dato biografico e focalizzandoci sulla questione “morale”, quanto Fontana c’è in Colnaghi?

 

È una domanda difficile. Ci sono degli elementi di fondo che condivido con Colnaghi, anche, invece, proprio biografici: entrambi siamo nati a Saronno, entrambi siamo interisti.

Però Colnaghi è chiaramente diversissimo da me per età, origine, fede, opinioni politiche. Ciò nonostante, come immagino sia poi inevitabile anche quando non si scrive autofiction, è tracimato qualcosa che mi appartiene. Penso che ciò che sia “passato” possa essere innanzitutto l’idea di avere un’integrità morale, o di tentare di averla.

Mi affascinava l’idea di provare a narrare una moralità che non fosse solo un mucchietto di certezze, ma un costante ragionamento su se stessi, nel tentativo di diventare non migliore di altri ma di sé. Poi, vedere come questa integrità avrebbe reagito, una volta messa alla prova in maniera radicale. Nel caso di Colnaghi è eclatante, perché si parla di un pericolo mortale, però credo che questo atteggiamento si possa verificare anche in forme più minimali nella vita di ogni giorno: quante volte siamo disposti a rinunciare a un pezzetto di ciò che crediamo giusto? Quante volte agiamo per conformismo, per piccole viltà, per interesse?

Queste sono cose che anche a me personalmente ossessionano. Mi affliggono le mancanze. Colnaghi è un personaggio abbastanza impermeabile al cinismo, che di tanti difetti umani è uno di quelli che mi irrita di più e mi getta nella costernazione.

Se devo cercare un ponte tre me e questo personaggio finzionale, direi tutto questo e aggiungerei anche una certa dose di senso dell’umorismo, che per me è essenziale.

 

– faccio una distinzione di base: c’è letteratura ottima che è intrattenimento e letteratura che vuole uscire da questo, che punta all’arte. Esiste, per questo tipo di letteratura, uno scopo? Un senso dello scrivere che vada al di là della creazione artistica? Lo scrittore è l’artista libero? È la voce guida del poeta? È l’intellettuale?

 

Penso che il romanziere non debba avere un ruolo al di là del romanzo stesso; però, allo stesso tempo, non sento mia l’idea de l’art pour l’art. Ritengo che il romanzo sia l’esplorazione di alcuni temi più o meno grandi attraverso delle soggettività finzionali che sono i personaggi, che dovrebbero essere il più possibile individuali e concreti. Quando questo prende la forma di una sorta di pamphlet o tesi mascherata da narrativa, quasi sempre il romanzo perde valore artistico, estetico.

E io credo che in Italia, anche perché abbiamo avuto una tradizione nel ‘900 molto legata alla questione dell’impegno, si sia sottovalutata la dimensione estetica. È capitato anche a me con Morte di un uomo felice. Si è parlato tantissimo di romanzo civile, di testimonianza, ma il mio scopo non era scrivere un romanzo che ampliasse il dibattito, ma scrivere un romanzo bello. E attraverso un romanzo si può creare empatia, senza per questo proporre delle verità o avere tesi da difendere. Io credo che il romanzo come forma artistica abbia questa peculiarità: è un territorio in cui viene sospesa la moralità, senza per questo negarla (Milan Kundera lo dice meglio di me). Possiamo leggere di persone che fanno cose agghiaccianti scrutandone le ragioni senza giustificarle nemmeno per un attimo. L’esempio ovvio è Dostoevskij.

Se ci spostiamo sul ruolo del romanziere entrano in gioco fatti soggettivi e personali che hanno a che fare con l’ego delle persone: è facile quando scrivi un libro pensarti investito di chissà quale autorità intellettuale o etica, ma io non credo che un romanziere solo perché scrive libri la sappia più lunga di altri. Racconta storie, tutto qui. Quindi, se c’è un ruolo che dovrebbe avere un romanziere oggi è scrivere bei romanzi, perché il romanzo fa tutto da solo. Poi, è normale avere delle opinioni ed esprimerle; e, se uno scrittore desidera impegnarsi civilmente o politicamente è sacrosanto: lo faccio anch’io. Ma senza inquinare i piani. Mi rendo conto che questa sia una posizione lontanissima da un’idea di spettacolarizzazione di un’autorialità che va molto di moda, ma è la mia, me la tengo.

 

– non avere social nel 2023: dichiarazione di intenti? Puro snobismo? È un lusso perché non ti serve? È una scelta che ti definisce? Che cos’è?

 

Non è una dichiarazione politica e ritengo che le piattaforme social abbiano tanti pregi e che siano un’attività come un’altra. Ma, mi rendevo conto, e parlo unicamente per me, che avevano un influsso sulla mia lettura e sulla mia narrativa: esercitavo una scrittura reattiva; cioè, sentivo di dover in qualche modo scrivere o esprimere la mia opinione, perché altrimenti cosa sei lì a fare? Alla lunga cominciavo a perdere il senso della cosa; inoltre non riuscivo più ad apprezzare il tipo di interazioni che si sviluppavano, a volte in forme molto virulente anche quando non ce n’era alcun bisogno.

Ma tutto questo era nulla al confronto della questione linguistica: vedevo che la mia scrittura e il mio atteggiamento verso le cose veniva, anche se solo lievemente, comunque influenzato. Tendevo ad essere più istintivo, reattivo, come dicevo, e per il romanziere non va bene: un autore non si deve far prendere dall’emozione e scrivere le prime tre righe che gli vengono in mente. E, allora, se vogliamo dare un ruolo all’intellettuale, questo dovrebbe essere il dire: «Calma, fermi, ragioniamoci a mente lucida.»

A lungo andare, mi ero stufato e ho chiuso tutto da molti anni. Non ne sento la mancanza, mi rendo conto di avere perso delle informazioni, anche pubblico, perché questo tipo di condivisioni aiutano, ma non bisogna poi sopravvalutarne il valore.

Quindi, non lo vedo come un lusso, perché non è che io sia Stephen King, che potrebbe essere fuori dal social e venderebbe milioni di copie. Non è snobismo, perché non vado sui giornali a vantarmi della mia scelta. È stata una posizione con dei pro e dei contro. A tutt’oggi i pro mi sembrano più validi.

 

– non avevo pensato al concetto di “reazione”. Parlando con Fabio Bacà del suo Nova, romanzo in cui il concetto di violenza riveste un ruolo centrale, l’autore mi raccontò questa cosa: venne contattato da un giornale per scrivere un articolo su un brutto fatto di cronaca appena accaduto. Rifiutò, perché, mi diceva, aver scritto di violenza non faceva di lui un sociologo o un criminologo o chiunque potesse avere qualcosa da dire su un fatto appena successo e di cui ancora si sapeva pochissimo.

È questa, secondo te, l’idea di reazione che i social accelerano? Ho capito bene?

 

È esattamente questo. Ti dirò di più: ai tempi di Morte di un uomo felice, venni contattato dal direttore di un quotidiano nazionale. C’era stato un omicidio di cui non si sapeva nulla. Il pezzo sarebbe uscito in prima pagina, mi era stato detto. In pratica, un’occasione da non perdere.

Io ero allibito. Trovo inconcepibile una cosa del genere: pensare che ci sia qualcosa da dire su un fatto così tragico appena avvenuto e affidarlo a una persona che non ha nulla a che vedere con il fatto in sé o le competenze per parlarne – ha solo pubblicato un romanzo che parla di un magistrato. Perché avrei dovuto scrivere qualcosa? Cosa avrei avuto da dire su un omicidio di cui non si sapeva nulla? E, cosa mi autorizzava a farlo?

Questo tipo di comportamento, accettare compromessi del genere, significa inquinare un discorso intellettuale che già è confuso di per sé; non porta chiarezza, non aggiunge nulla.

 

– domanda sullo stato dell’arte. Com’è messa la letteratura in Italia, e, come ho chiesto qualche mese fa all’amico di Wertheimer (e colui che ha innescato la nascita di questa rivista) Vanni Santoni, qual è lo stato di salute del romanzo oggi: massimalista, postmoderno, autofiction, dove sta andando il romanzo? Riconosci una corrente? C’è qualcosa che ti piace di più, di meno?

 

Premetto che nell’ultimo anno e mezzo ho letto pochissima narrativa contemporanea, per cui non ho il polso fresco sulla situazione. Nei limiti di quello che ho osservato, noto una notevole vitalità e varietà di lavori, quindi un buono stato di salute della narrativa. Però, se guardiamo ai romanzieri degli anni ’50 e ’60, la lingua usata era più ricca, profonda: da Calvino a Gadda, Arpino, Elsa Morante, Natalia Ginzburg. Era più bella. Mi sono interrogato sulle ragioni che hanno portato a questo scadimento linguistico, non generalizzato ma che si può osservare. C’è stato, mi sembra, negli ultimi anni un’esplosione del romanzo autobiografico, del memoir e dintorni. Io sono un romanziere vecchio stile, mi piacciono le storie di finzione, non mi interessa parlare di me. Alcuni di questi libri hanno saputo raccontare cose molto interessanti, ma ciò che io contesto è il rischio di attribuire una patente automatica di letterarietà a una vicenda vissuta: “io ho vissuto questo dolore e quindi sono titolato a parlarne e quindi quello che scrivo è vero e valido”. È questo il salto illogico: dal valore personale alla legittimazione estetica.

So che viviamo in un’epoca in cui l’esperienza del singolo viene sacralizzata, ma a livello romanzesco il pericolo è che si scambi il dovuto rispetto, per un automatico riconoscimento letterario. Si rischia di abdicare al lavoro sulla lingua, sulla forma e secondo me questa prosa non crea nemmeno l’empatia che vorrebbe: mette in mostra tanti io separati.

Ma la letteratura italiana è ricca di tante altre cose, tanti generi, tantissimi approcci anche (e vivaddio) lontani anni luce dal mio. Bisogna capire quanto continuerà a incidere questa forma narrativa che, come tutte le forme, è nata e purtroppo finirà: come non leggiamo più poemi epici, prima o poi potrà essere che non ci sia più il romanzo. Spero di morire prima io.

 

– in chiusura, ci siamo conosciuti nelle aule della Scuola Belleville: ti piace di più scrivere o insegnare?

 

Mi piace tantissimo insegnare, lo faccio con grande gioia e voglio fra l’altro sperimentare nuovi metodi didattici; ma scrivere è il mio primo amore e non farei cambio con nulla.

Però bisogna scrivere narrativa solo quando si ha qualcosa da raccontare: quindi tempo al tempo.