TOMMASO CALABRO

Un’intervista di Fabio Rodda
 

Tommaso Calabro, classe ’90 nato a Feltre, provincia di Belluno. Studi in Bocconi e King’s College, dopo un periodo da Sotheby’s, ha diretto tra il 2016 e il 2018 la galleria d’arte Nahmad Projects a Londra. Oggi insegna nell’università in cui si è laureato e dirige la sua galleria d’arte a Milano, al piano nobile di Palazzo Marietti.

Ci siamo conosciuti pochi mesi fa, a Milano. Amici sui social e conterranei per nascita, ma mai incontrati di persona, sapevo che Tommaso aveva una galleria in città che in quel periodo ospitava una mostra dedicata a Leonor Fini. Immaginavo la classica situazione da Milano alternativa: una sala, magari anche molto bella e in posizione centrale, ma piccola e con i muri pieni di opere d’arte contemporanea e qualche studente di Brera rapito dalle tele. Il mio stupore all’arrivo alla Tommaso Calabro Gallery è stato assoluto.

Un palazzo nobile a due passi dal Duomo, in una di quelle vie che sembrano fuori dalla città: silenzio, quiete a pochi metri dal caos e dai negozi di fast fashion di via Torino. Temevo di aver sbagliato indirizzo, mentre salivo lo scalone che mi portava a incontrare quei parquet lucidi e quelle diverse stanze classiche, importanti, quasi austere e calde allo stesso tempo. Piuttosto confuso, mentre passeggiavo fra le opere dello splendido allestimento, ho scritto a Tommaso per applaudire alla sua mostra e a quelle magnifiche stanze. Pochi minuti dopo, eravamo sul terrazzino della sua galleria/casa: a sinistra la Pinacoteca Ambrosiana, la chiesa di San Sepolcro e a destra l’ex Torre Littoria del Portaluppi. Davanti a noi, la piazza in cui il 23 marzo del ’19 Benito Mussolini fondò i Fasci italiani di combattimento, da allora ricordati come i Sansepolcristi, cantati dal fondatore del Futurismo, Marinetti.

Colpito dal luogo, ma ancor di più da Tommaso, ho deciso subito che sarebbe stato lui il protagonista della prima intervista nella sezione che avevo immaginato per Wertheimer: chiacchierate con personaggi legati al mondo dell’arte, non necessariamente scrittori o addetti ai lavori, persone affascinanti e con una storia da raccontare.

Tommaso è la sua galleria. Non per niente ha deciso di viverci, di ricavarsi un piccolo spazio contiguo agli ambienti aperti al pubblico, spesso a sua volta aperto come facesse parte dello spazio espositivo, con le tele di Warhol e Copley, Fini, Matta, Lepri, De Chirico, Tancredi, la sua collezione privata, appese o poggiate a terra, lasciate alla vista dei visitatori delle sue mostre.

Con un programma solamente incentrato sul suo gusto personale, che corrisponde in larga misura a un surrealismo anni ’50 e ’60 raramente italiano, Tommaso vive di arte e per l’arte: «Non è un mestiere, è uno stile di vita. Non ho orari: o non lavoro mai, o lavoro sempre. È un qualcosa che ti appaga se lo vivi bene, io poi ci vivo dentro e quindi tutto lo spazio diventa casa mia. In casa mia faccio quello che voglio e questo si vede.

Schifano, Boetti, Burri, Fontana, oggi ci sono decine di gallerie che possono offrire questa cosa. Non avrebbe senso fare quello che già fanno in tanti, e poi mi piace mostrare e vendere quello che anche io vorrei vedere, comprare, collezionare. Scegliere questa vita è simile alla vocazione di un prete: quello che lui sente nei confronti di Dio non credo sia differente da quello che io provo nei confronti dell’arte. Ma, l’opera è un oggetto fisico, qualcosa di molto reale e tangibile. Non ho altre passioni, non colleziono niente, l’amore si accende con le opere d’arte. La mia identità è stata strutturata in maniera talmente simbiotica con l’arte, che staccarmene vorrebbe dire perderla. Le opere d’arte, per me, sono tutto».

Ma come nasce un gallerista così atipico? Il nonno aveva una tipografia a Feltre e quando è mancato nasce in Tommaso l’interesse per le stampe degli artisti veneti, che inizia a vendere su ebay. Quella è la strada: gli studi si incentrano sul mercato dell’arte, poi il lavoro per una casa d’asta, grandissima scuola di formazione; ancora, dirigere una galleria importante come la Nahmad Projects.  Giovanissimo, Tommaso poteva già dirsi arrivato, ma in lui viveva l’urgenza di avere una propria galleria: «Se tu fai una cosa che è tua e piace, si rispecchia nel responso che tu hai. Il fatto che incontri il gusto degli altri ti rende doppiamente contento e le persone, allo stesso tempo, capiscono meglio quello che tu proponi, perché l’enfasi che metti nel raccontare un’opera che tu ami sarà sempre maggiore e più avvolgente di ciò che vendi per necessità».

Lo spazio, così potente, entra in dialogo con tutto ciò che viene esposto, forse è quasi “invadente”: troppo bello per non essere notato, tanto quanto le opere esposte. Una scelta voluta e cercata, perfettamente allineata alla visione, all’estetica di Tommaso: «È più bello vedere le opere in uno spazio così, no? L’opera non deve essere l’unico centro. Non occorre una galleria per vedere un quadro: fare mostre ha un costo notevole, serve per farsi conoscere e incontrare collezionisti, ma non è di per sé necessario alla vendita di un’opera. La cosa che mi affascina è l’aspetto scenografico della mostra, il livello maniacale di cura dell’allestimento aiuta la visione dell’opera. Le scenografie diventano importanti quanto i quadri».

La galleria è molto classica e molto formale. Tommaso, parlantina sciolta, occhiali blu e sneakers, pare tutto fuorché classico e formale: «Sono tutti livelli della mia personalità. Ho 50 paia di scarpe Nike tutte uguali di colori diversi e mi piace così. Sono tutti aspetti che coesistono: un bisogno di eleganza, un bisogno di attenzione estetica, una gestione di complementarità di tutti gli elementi. Luci, quadri, scritte: tutto è nella mia mente un unicum e come tale lo tratto, senza dare privilegio necessariamente a un elemento. Ci deve essere movimento. Un museo ha uno scopo educativo nella società. La galleria non ha obbligo sociale. Le persone vengono per vedere un gusto e vedono un mio modo di leggere quel gusto. Puoi venire qui per vedere Consagra, ma scoprirai un Consagra totalmente inaspettato, lontano da quello che tu pensi di Consagra, che nei musei è il massiccio degli anni ’50. Vieni qui a leggere un modo di vedere le cose, la mia visione delle cose».

I visitatori, di cui si coglie il movimento al di là delle finestre, attraversano le stanze ammirando le opere esposte. Tommaso ha introdotto il tema “museo”. Mi interessa molto comprendere che rapporto c’è fra pubblico e gallerie, se c’è un dialogo, nel mondo dell’arte, fra musei e privati.

«Molto poco, perché il pubblico non presta al privato. Se chiedo un quadro che non è nemmeno in mostra, ma in un deposito statale, il prestito mi viene negato di default. All’estero me lo presterebbero. Ad esempio, a Ferrara ci sono due Leonor Fini molto belli degli anni ’80, di una mostra che fece a Palazzo dei Diamanti, e non sono mai esposti. Ma non me li hanno prestati. È una presa di posizione a priori, atipica rispetto ai giorni nostri e, quindi, c’è poco dialogo. Io presto ai musei, ma non c’è un viceversa. Mi dispiace molto».

Avere trent’anni e fare il gallerista, per di più in legato al moderno e non al contemporaneo, pare veramente vicino al concetto di inattuale di cui tanto Nietzsche scrisse, eppure Tommaso è perfettamente a suo agio nel mondo i cui vive, per nulla lontano dall’uomo della strada che, invece, ora è lontanissimo dal mondo dell’arte. O no?

«Cos’è l’arte? Per me è una questione di vita, ma è una risposta soggettiva. È quell’elemento della vita che mi fa campare e che riempie la mia esistenza. Perché i poeti oggi non contano? Perché parlano tutti. Puoi scrivere mille idiozie sui social e trovare la tua corte. I social hanno fatto terra bruciata di ogni idea ben strutturata, che occupi più spazio di 160 caratteri. Idem per l’arte: lo spazio è del singolo momento, dell’immagine che puoi postare su Instagram e non è importante cos’è la fotografia, o il quadro, ma mostrare che tu c’eri. Mostrare, attraverso la fruizione della cultura, che tu sei una persona acculturata. Quanto sono apprezzati i professori, gli insegnanti oggi? Manca la comprensione del ruolo educativo e, a cascata, si perde il senso di ciò che si fa. Ora è tutto quantificabile: le opere sono belle quando costano, tu sei importante in base a quanti follower hai, il tuo rilievo in città si quantifica sul tuo stipendio. Viviamo in una società molto liquida, che ti da un sacco di possibilità, con aspetti positivi, ma con enormi pecche sociali.

L’arte sembra lontanissima dalla vita dell’uomo della strada, il collezionista medio in Italia quasi non esiste più. Se guardi i numeri dei musei, però, non è così, mai come oggi presi d’assalto e sfruttati dalle celebrities che amano farsi ritrarre agli eventi culturali».

Parlare con Tommaso è un fluire di idee, di temi. Buttate le domande che avevo preparato, lascio che la discussione corra. I social, croce e delizia di una generazione appena dopo la mia, hanno, a mio avviso, una responsabilità profonda sul decadimento culturale e umano del mondo di oggi. Tuttavia, sono un mezzo e, come tutti i mezzi, possono essere usati bene o male. Si possono promuovere attività benefiche, culturali anche attraverso i social network.  

«Senza Instagram io non avrei aperto la galleria così presto come ho fatto. La visibilità e i contatti ottenuti sono stati fondamentali. Quando faccio un post, ricevo un riscontro soprattutto nell’ambiente che mi interessa. Si potrebbe fare sicuramente di più. Ma già così non spendo un euro in pubblicità, i social media funzionano bene e danno una risposta maggiore rispetto alla stampa e agli altri canali promozionali.

Il presenzialismo? Serve perché è un mondo che vive di fumo. Per fortuna, a me non serve. Almeno non più».

Cosa chiede a se stesso uno che, così giovane, è già così forte nel mondo in cui voleva sfondare?

«L’ambizione più grande a livello strategico, sarebbe ideare un modello di galleria che sia replicabile altrove. La gente vuole passare bene il tempo, stare nel bello. Vorrei fondare un club dove gente di un determinato tipo culturale si può incontrare. Avevo messo in piedi un progetto del genere: il piano terra del palazzo in cui ho la galleria era libero, trecento metri da dedicare a un club con camerieri vestiti da stilisti e che immaginavo frequentato da designer, artisti. Un posto in cui io e te ora chiacchiereremmo come stiamo facendo qui. L’amministratore di condominio rifiutò, perché temeva si sarebbe creata troppa confusione nel palazzo. Era il dicembre 2019, mai quel rifiuto fu più giusto, perché un mese dopo esplose il Covid e sarei scoppiato di costi. Ma è una cosa che farò.

La galleria più importante d’Italia è la Galleria Continua a San Gimignano. La gente la porti ovunque se hai un grande progetto. È la mente delle persone che determina se un posto “funziona”, o no. Se ha appeal o no, se nasce un contesto, oppure no. Io non ho mai pensato a quello che faccio in base a dove sono. Non c’entra dove sei, conta l’idea che hai. C’è il cellulare con cui puoi essere in contatto con l’intero mondo. Io non sono un genio, ho solo le idee chiare. Prendo persone più brillanti di me a lavorare per me per riempire le mie lacune. Uno deve conoscere i propri limiti ma credere nelle proprie idee».

Passiamo alla mia prima curiosità: perché non il contemporaneo?

«Ti racconto una cosa: Damien Hirst ha assistenti che disegnano i “suoi” pallini. La sua migliore assistente lo lascia e si mette a fare opere a nome proprio. Le stesse. Le stesse cose che faceva per Hirst, a nome di Hirst, ora le fa da sé, per se stessa. Ma non è diventata Hirst. Capito il paradosso? Questo dimostra che sono il contesto e la struttura che danno valore all’artista. La creazione di carriere, soprattutto nel ‘900, è stata determinata dai mercanti. La capacità di dare visibilità ad artisti è spesso sottovalutata nella storia dell’arte e, in realtà, la storia dell’arte è fatta da questo. Non ci sarebbe stata una scena milanese negli anni Sessanta se non ci fossero state le gallerie. A Milano, Carla Pellegrino, Carlo e Renato Cardazzo, Swartz hanno creato la scena di quel momento. Senza di loro, molti artisti non avrebbero avuto la visibilità e la fama che hanno poi ottenuto. A livello culturale è una mancanza importante.

Io compro contemporaneo, ma il modo di lavorare oggi col contemporaneo è molto diverso da quello degli anni ’50 e ’60. L’aspetto qualitativo è secondario nel contemporaneo: non puoi valutare un’opera fatta con le lattine di Coca Cola vuote. Assume importanza se si inserisce in un contesto, se questo contesto è spiegato dai curatori e se viene istituzionalizzato.

Oggi a Londra ci sono almeno 45000 persone che si dicono artisti. E ci sono gallerie straniere enormi e strutturate. E siccome il livello qualitativo è di secondaria importanza, verrà giudicato a posteriori, semmai, non hai spazio per creare un contesto e quindi non istituzionalizzi l’artista. Venderei opere, ma non creerei carriere, che è quello che conta col contemporaneo. Oggi, questo mestiere viene fatto dalle grandi gallerie che hanno 200 persone che lavorano per loro. È un altro mondo.

Se io ti dico “dammi 10 nomi di artisti italiani degli ultimi 10 anni”, si fa fatica. Questo prova che le gallerie italiane non riescono a lanciare artisti italiani. È un dato di fatto. Potremmo nominare Cattelan, Pezzoli, Beecroft, Stefano Arienti, Paola Pivi, ma sono pochi rispetto al numero di artisti presentati dalle gallerie. Perché? Perché non c’è collezionismo interno che compra, come invece all’estero e mancano le strutture per il contemporaneo in Italia. Non c’è un museo di contemporaneo a Milano. Ci sono Hangar Bicocca e Fondazione Prada, che hanno svoltato la città e per fortuna, ma non c’è un’istituzione che permetta di valorizzare gli artisti. È un’altra strada, che qui da noi non viene percorsa».

Il silenzio che abbraccia questa magnifica piazza fa davvero dimenticare il caos di Milano, ci si perde nella sua bellezza così densa di arte e di storia. Chiudiamo quest’intervista con un prosecco e un’ultima domanda: progetti futuri?

«Farò una mostra su Lepri. Poi, dato che mi dispiace vedere galleristi fondamentali per la storia dell’arte oggi completamente dimenticati, vorrei dedicare ad alcune di queste figure incredibili un ciclo di esposizioni. Vorrei organizzare delle cose a Feltre, ho delle idee, vedremo.

Un sogno? Aprire una galleria a Venezia. Perché è bellissima, ricca di arte e cultura e turismo anche di fascia alta e molto alta che viene lì in vacanza e, quindi, con più propensione a regalarsi un oggetto d’arte, anche costoso. E poi, perché in laguna si sta così bene».