Nova – Fabio Bacà

Una recensione di Fabio Rodda
 

Nova (ottobre 2021), secondo romanzo di Fabio Bacà, esordiente di lusso per Adelphi con Benevolenza Cosmica nel 2019, è il libro che più mi ha colpito in questo 2022 denso di letture e scritture. Stacca gli altri di un palmo. Quest’ammissione, prima ancora di cominciare a entrare nel merito del romanzo, è un atto dovuto di sincerità: ritengo Bacà, cinquant’anni e due opere eccezionali in curriculum, un fuori classe della letteratura. Fuoriclasse in senso etimologico: colui che si pone al di là della classe di appartenenza, in questo caso non sportiva ma letteraria, perché al di sopra, ma anche in disparte. Il fuoriclasse è quel campione che, in uno sport poco frequentato dalle masse come la scrittura, diventa un oggetto misterioso. Molto meno osannato del bomber regolare che segna al momento giusto dopo una partita mediocre, Bacà è quello che fa tre gol in semifinale e poi ne sbaglia uno a porta vuota all’ultima giornata. Inclassificabile, perché troppo diverso dalla norma su cui è costruita la classifica, estraneo alla medietà della squadra. Prova ne sono i piazzamenti al Campiello e allo Strega: i premi sono fatti per i migliori della classe, i fuoriclasse necessitano di parametri che non si adeguano ai più bravi, sempre seduti in prima fila, ai secchioni. È già un fatto eccezionale che la scena letteraria italiana si sia accorta di Bacà e lo abbia voluto premiare con la finale dei due titoli più importanti del Bel Paese. Non è, invece, eccezionale che di lui si sia accorta una casa editrice come Adelphi, su cui nulla di buono posso dire io che altri prima e meglio di me non abbiano già detto.

Ma, andiamo al libro: Io sostengo una cosa ben diversa, ossia che per quasi tutti noi la violenza è un fatto emotivamente alieno. Non è che il cittadino medio sia diventato immune ai contraccolpi psichici di un agguato: è che non riesce a stabilire un collegamento produttivo tra l’impatto razionale e le inferenze emotive che tale impatto innesca. La parola fondamentale, qui, è “produttivo”. Il problema è che abbiamo perso contatto con qualcosa di essenziale dentro di noi. Un inizio fulminante mette subito in subbuglio il lettore, gettando sul piatto un argomento che nella nostra società è a tutti gli effetti un nuovo tabù. Nel nostro mondo di esseri semi-umani che si vogliono semi-dei, basato sulle norme della funzionalità e della performance, un istinto, una forza antichissima, primordiale, come la violenza è un argomento al limite dell’accettabile. Oggi, le guerre si combattono fra un servizio fotografico su Vogue e una copertina di Time, fra “sanzioni” e “operazioni militari” di droni con effetti da stress post traumatico sui militari che li pilotano a migliaia di chilometri di distanza. Un po’ diverso dalla stampa patriottica e dalle trincee delle battaglie novecentesche. Oggi, il sangue, la ferocia, la prevaricazione sono relegati a quel mondo che non vogliamo considerare come nostro. Appartengono sempre agli altri: ai bruti, che si picchiano nei localacci in cui noi mai metteremmo piede; ai bulli, che tengono in scacco i figli degli altri; ai mostri che violentano; a società meno sviluppate, in cui i reati si puniscono con orrida fisicità. Noi no, noi siamo puliti e quieti, noi discutiamo senza alzare la voce, noi condanniamo col piglio di chi sa di essere nel giusto, ma non alziamo le mani. Noi chiudiamo i colpevoli dove non possono essere visti e smettiamo di preoccuparcene. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Noi litighiamo mantenendo le distanze. Nel nostro mondo di appartamenti moderni e asettici in stile Apple, bianchi e acciaio, di rapporti gestiti via app, di appuntamenti galanti su smartphone; nella nostra società di sicurezze aleatorie dettate da una visione della vita priva di incertezze, ormai incapaci nella manualità al limite del ridicolo, come ci rapportiamo con qualcosa di potente, feroce, spaventoso e terribilmente umano come come la violenza?

Nova non si può e non si deve raccontare: va letto. Accennerò l’indispensabile. La trama, di per sé, è semplice: Davide, mansueto neurochirurgo amante della musica rock, si gode la vita agiata nella provincia bella e benestante della Toscana. A Lucca, vive con la moglie Barbara, vegana (come l’autore), logopedista, e con il figlio Tommaso, appassionato di astronomia e in piena confusione adolescenziale. La quiete solo superficiale di un uomo portato alle domande profonde, al dubbio, a quel “vivere per la morte” che teorizzava Heidegger, viene scossa da un evento violento, anche se privo di serie conseguenze: un ubriaco importuna la moglie davanti a lui in un locale. Sarà lo sconosciuto Diego, nemesi del protagonista, a salvarla da un brutto momento. Di qui in poi, per Davide il mondo confortevole ma fastidioso (il vicino che lo minaccia e contro cui non sa reagire) si contrae in un viaggio sempre più ansiogeno alla scoperta di Diego, della sua storia, delle sue teorie e dei propri istinti, dello spazio che si occupa nel mondo e dell’umano desiderio di reazione, anche violenta, alle minacce, alle prevaricazioni.

Tutto interessante, tutto bello. Ma non basta a farne un capolavoro. Ciò che rende questo libro eccezionale è quello che Cioran chiamava le ton, il tono, il piglio, il modo di scrivere di Bacà, che sullo sfondo monocorde del romanzo borghese, tipico della nostra narrativa almeno dalla seconda metà del ‘900, infila note minori e variazioni come in una sinfonia disarmonica che costringe a fermarsi, riavvolgere qualche riga e ripartire per capire dove si è perso il filo, il flusso, l’accordo perfetto. Si è incastrato lì, dove l’autore ha voluto costringerci a una pausa, dove c’è – finalmente! – quella distorsione improvvisa che cambia il ritmo, il fluire regolare di una scrittura bella e forbita, per colpire con la punta dello stiletto, per dare fastidio, per disturbare.

Ecco, lì c’è tutta la bellezza di Fabio Bacà, la sua bravura, la capacità rara di mettere Carver in Flaubert, il freddo del minimalismo nel fluire fiorito del romanzo più classico; la bravura di infastidire accarezzando. Nova, in astronomia una nana bianca al momento della propria esplosione, cresce di pagina in pagina, accelerando l’andatura dei fatti e il ritmo della scrittura come un’onda che da piccina aumenta di volume, fino a diventare spaventosa e infrangersi con potenza distruttrice sulla costa.

I mondi di Davide, Barbara e Tommaso sono pennellati con maestria in un romanzo inizialmente corale, che, come in un imbuto, si concentra pagina dopo pagina su un’idea, su una tema più che sulla vicenda o sui singoli personaggi: Dio ha creato il mondo con la violenza. L’universo si è espanso nel nulla in virtù della pura violenza. Le nostre anime sono state salvate da un atto di violenza.

Come reagire a questo Leviatano? Quanto siamo disposti a perdere, rispetto all’idea edulcorata che il mondo ci chiede di avere di noi stessi, per reagire alla violenza? Cosa siamo disposti a mettere in gioco, quando riconosciamo i nostri istinti, la nostra natura soffocata da una vita intera di imposta quiete borghese?

O sei illuminato, o non lo sei. O sei innamorato, o non lo sei. O sei pronto, o non lo sei. Ora lo sei. Il tuo Potere controlla il Potere altrui. La tua violenza è l’argine a quella altrui. La tua aggressività rispetta quella altrui. La contiene, la inibisce. Un giorno verremo a patti con i nostri istinti profondi, e da quel momento ogni cosa cambierà, perché la violenza è il tratto umano più unificante che c’è. Il segno della fratellanza.

Con una scrittura elegante e raffinata, del tutto priva di inutili orpelli ma ricca di lessico ricercato e mai banale, Bacà conferma la bravura dimostrata col suo romanzo d’esordio. Non per niente, è “nato” con Adelphi, più un punto d’arrivo di una carriera che un punto di partenza, per i comuni mortali. La sua scrittura, potente e diretta, chiede molto al lettore di oggi, abituato a sfogliare più che a leggere la narrativa contemporanea: qui ci si deve soffermare sulle parole, sulle domande che la trama pone nello svolgersi.

Finalmente, un romanzo che fa quello che dovrebbe fare la letteratura: turbare, infastidire, mettere la pulce nell’orecchio, buttare polvere sul pavimento di marmo appena lavato. Questo è il compito della narrativa nel suo essere contemporanea: non mettere pace, per questo abbiamo secoli di inarrivabile storia dell’arte, ma colpire, ostacolare il pensiero unico e lineare. E, quando qualcuno riesce a farlo con la fluidità e lo stile di Fabio Bacà, non si può che applaudire un fenomeno. Solo Franco Stelzer, fra gli italiani, mi ha così colpito negli ultimi anni. Come ho detto all’inizio, parliamo di fuoriclasse della letteratura, il cui destino può essere di arrivare penultimi ai premi o di finire fuori catalogo Einaudi, ma questa è la storia di chi è in contrasto col proprio tempo, degli inattuali, come diceva un grande filosofo un secolo e mezzo fa.

Per quanto mi riguarda, dopo un colpo come Nova e il precedente, bellissimo, Benevolenza Cosmica, Bacà avrebbe tutto il diritto di dedicarsi a compilare fumosi memoir o a raccontare triller con cui mettere insieme due soldi veri e non gliene vorrei. Per le band rock fino agli anni 2000, il terzo album era quello della caduta o della consacrazione: dopo i primi due colpi, di solito già lavorati al raggiungimento della fama, il terzo era quel momento in cui chi aveva avuto fortuna si sgonfiava e chi aveva qualcosa da dire, lo diceva al meglio. Si parlava di “album della maturità”. Aspetto il prossimo Bacà, appassionato rockettaro e quindi ben conscio di queste dinamiche, con impazienza. Vorrei un libro che, come per i suoi primi due e come mi succede da 20 anni solo con Houellebecq, mi faccia voltare l’ultima pagina con un ghigno, con il rammarico per non saper scrivere così anch’io e con la voglia di mandare a quel paese l’autore per la sua bravura, per il fastidio, per l’invidia generata e per il fatto che il libro sia, tragicamente, già finito.