una pillola da bar di Michele Scaccaglia


Barabba è stato il mio barista di fiducia per quasi una decade. Miscelatore involontario di stili vintage, Barabba avvelenava con caffè tossici i vecchi del paese e altri sbandati di periferia. Non rinunciava mai ai suoi zoccoli bianchi e non si decideva a tagliare quei quattro capelli lunghi e bisunti che ciondolavano incerti dalla sua testa deforme. Il locale puzzava di plastilina e post-comunismo emiliano. Le finestre erano accuratamente sigillate per conservare quell’aroma nauseante che qui, nella metropoli, definirebbero autentico. Qui, nella metropoli, i dettagli sono importanti e qualche coworking cafè sarebbe capace di riprodurre quell’essenza di vita vera per poi rivenderla in flaconi da 50 ml ai polli locali. Qui, nella metropoli, prendi un internet point arabo, lo incroci con una caffetteria e lo riempi con qualche arredo in stile arte povera. Aggiungi una dozzina di piante dell’Ikea e farcisci il tutto con riviste di design e torte vegane. Nella metropoli, lo Unicorn è il coworking café del momento. Ed eccomi qui, anch’io – prima di criticare bisogna almeno provare, diceva sempre mio nonno. I toni pacati delle bariste e gli sguardi di mascherata indifferenza degli ospiti mi puzzano già di setta segreta. Mi accomodo al bordo di un lungo tavolo in legno massiccio, sperando di averne diritto. Ordino un cappuccino. 3€ + mancia. Con questa mossa la prima ora di internet è gratis. Dopo il cappuccino alzo la posta in palio. Acqua di cocco freschissima dalla Thailandia. 3.80€ + mancia. Muffin senza glutine, con feta e spinaci. Altri 3.50€ + mancia. Ottengo un nuovo pizzino con la password per un’altra ora di internet. Il resto della clientela mi irrita, si fa d’improvviso chiassosa perché, in realtà, nessuno – me compreso – è veramente qui per lavorare. Alla mia sinistra si è radunato l’esercito delle mamme. Niente di nuovo. Anche da Barabba si fermavano per un breve pit-stop dopo aver accompagnato i figli a scuola o all’asilo, ma il tempo di un espresso e via, volavano al lavoro o a sbrigare mille altre faccende. Qui invece le mamme s’insediano con cani e pargoli, piantano le tende e allestiscono un asilo all’interno della caffetteria. Qui le mamme dominano. Qui le mamme sono un clan di intoccabili e hanno la precedenza in tutto. E mentre interrogo la mia coscienza su femminismo e misoginia, mi accorgo della presenza, alle mie spalle, di tre giovani rampanti armati di Macbook. Voglio sapere tutto di loro. Tendo le orecchie e ordino uno smoothie della casa per lasciar intendere che son disposto a giocare pesante. 4.60€ + mancia. I ragazzi sono sul pezzo. Dibattono di ristoranti di Los Angeles e musica techno giapponese. Si danno un tono manageriale. Organizzano un esperimento sulle droghe e contattano cavie. Forniscono indicazioni scientifiche al telefono. Fissano sedute. Anche loro esprimono il proprio stupore per il prezzo del pane alla banana, ma sanno di essere nel posto giusto e spalancano il portafoglio molto meglio di me.

Si è fatto buio. In un intero pomeriggio nessuno si è seduto al mio tavolo. Do un ultimo sguardo incuriosito al magico coworking, il paradiso perduto in cui una cerchia di illuminati sogna di unire le proprie forze per creare un mondo migliore, un mondo di mamme, pargoli, cani, e persone felici e interconnesse, da Los Angeles al Giappone. La stanza è ormai deserta, le luci sono calde e soffuse. All’ARCI di Barabba, invece, i neon da ospedale sparavano fasci di luce fredda su scarafaggi e mosche morte sul pavimento. Chissà che anche Barabba, di tanto in tanto, non sognasse un mondo felice e interconnesso. Sparì nel nulla, Barabba. Il giorno dopo la festa del suo pensionamento, condita da lacrime e abbracci dei clienti (soprattutto di quelli chiamati a saldare conti decennali a tre zeri), come se dell’umanità ne avesse avuto veramente abbastanza. E con lui, in definitiva, sparì anche l’ultima fetta di quel romanticismo provinciale che forse, senza troppa consapevolezza né unicorni, felici e interconnessi ci rendeva per davvero tutti.