una pillola da bar di Roberta Raeli

Arrivano tutte e tutti. Velocemente o con calma, con la mente distratta o guardandomi dritta negli occhi, in pace o con un diavolo per capello. 

Tutte e tutti con la stessa richiesta.

“Mi fai il solito?”

E tra un sorriso e una smorfia, parto insieme alla mia mente, contando, senza farmi notare, le innumerevoli figure ‘da ciodi’ che ho fatto, che farò e che quotidianamente faccio con ‘sta storia del ‘solito’.

Inizia la sfida, insieme al countdown che segna inesorabile le mie disfatte.

Ma cambiate ogni tanto, no? 

Cosa sarà mai questa abitudine, questa noia ripetuta, questo consueto copiare e ancora e ancora. 

Uscite dalla vostra zona di comfort, suvvia, dal letargo dei giorni tutti uguali, da una vita piatta e senza emozioni. 

Che poi mi tocca ricordare quello che prendete, tutte e tutti. E iniziare a produrre sinapsi multiple, sforzandomi di abbinare visi e caffè, sguardi e drink, labbra e gusti di tramezzini. Che però, a tratti, si mescolano tra loro, in curiosi mix multietnici e multigusti, creando ennemila abbinamenti nuovi e fantasiosi. 

N’avessi azzeccato uno. 

Siete sempre i ‘soliti’ ma siete veramente tanti. 

C’è il ‘solito’ gruppetto di impiegati che pretende il tavolo prenotato e nemmeno saluta quando entra.

Ma perché mai dovrei ricordarmi i vostri cattivi gusti? 

C’è la ‘solita’ signora, un po’ esaurita, che con il dito indice ti fissa a mo’ di evidenziatore ad ogni svista o piccola distrazione.

Nella mia mente non c’è posto per lei.

C’è il ‘solito’ macho, molto convinto della sua avvenenza, che con la bocca a cuore pensa di invogliare a chissà quale fantasia.

E invece mi fa solo venire in mente quello stronzo dell’ex di millemila anni fa.

E già che ci siamo l’ordinazione te la sbaglio apposta. Scherzo tra me e me.

Tra gli sguardi della collega sprezzante e quella che impietosita mi bisbiglia all’orecchio la giusta accoppiata.

Nell’attesa di chi, sedendo di fronte al banco, immerge nei suoi pensieri anche i capelli e tutta la faccia, fino a sprofondare.

C’è anche la ‘solita’ coppietta che amoreggia, sospesa nel tempo, sul divanetto più imboscato del locale. Che anche se non porto loro nulla va bene uguale.

C’è la ‘solita’ compagnia chiacchierona di mamme, seguite da altrettanti rumorosi bimbetti. Per ricordarsi tutto di tutti mi ci vorrebbe un pc stampato in fronte. Missione impossibile. 

C’è la ‘solita’ adolescente, con le cuffiette incorporate, che parla velocissimo. Per capirla mi ci vorrebbe un traduttore multilingue.

Penso davvero che la mia memoria sia diventata selettiva dall’esasperazione e io la assecondo amorevole.

Questa storia del ‘solito’ non s’ha da fare. 

Il mio amico psico markettaro mi rammenta che, invece, è cosa buona e giusta, per coccolare il cliente, per fidelizzarlo, per creare valore al locale e colmare il bisogno.

É normale. 

Ma dico, dei miei bisogni chi si occupa?

E poi bisogno di che?

Di qualcuno che risolve i problemi? 

Di qualcuno che ti fa sentire importante?

Ma cosa é normale?

Ma non era ‘solo’ lavoro?

Ed è allora che la collega sempre più sprezzante, nella volontà di farmi sentire ancora più inutile, mi manda di là, in fondo, vicino ai cessi, a metter a posto anche quello che non serve, perché insomma così non va bene, non si fa.

E, tra il vantarsi di avere una memoria di ferro e un bla bla bla, inizia a intrattenere e colmare i miei errori come fossero buchi. Un po’ come quelli delle ciambelle. Per quelle va bene così però.

Mentre sistemo l’insistemabile il pensiero corre veloce, il cuore pure, galoppa, si imbizzarrisce, in gola, scalpita.

Il tentativo di umiliarmi è andato a buon fine. Non è tanto il fatto di aver pulito vicino ai cessi che mi fa stare male. 

Quanto piuttosto quella spocchia ignorante di chi crede di non aver più nulla da imparare. 

Non è tanto l’atto in sé un po’ bullizzante e maleducato di vantarsi nell’inesperienza dell’altro, quanto piuttosto quella sensazione che dal petto schizza diritta alla pancia, che ti fa capire di essere il capro espiatorio delle frustrazioni di chi non ha la forza di fare diversamente.

Le spalle un po’ si chiudono, la testa si china, le mani stringono la scopa. Mezza rotta. 

Oggi è proprio una di quelle giornate, un po’ uggiose e grigie, non solo per gli occhi ma anche per il cuore.

Lo sguardo resta basso, perché in fondo non combino nulla di buono qua dentro. Mi sembra che sia tutto gigantesco e difficilissimo. Fuori ci sono battaglie più grandi da combattere, mi chiedo se riuscirò ad affrontarle.

Ognuno ha i suoi fantasmi, forse quelli degli altri sono ancora più spaventosi.

È quasi ora di chiusura, si inizia a pulire tutto, a sistemare, a riordinare. 

Le richieste rallentano, le voci si diradano, la confusione si sparpaglia. 

Esco, il buio tarda ad arrivare ormai. Un buon segno. 

Che la luce è segno di vita, la primavera di rinascita. 

Dall’ultimo tavolino nell’angolo, quasi sulla strada, rimane assorta Romina, di fronte al suo ‘solito’ spritz. Quasi incantata da un tramonto che sta per nascondersi dietro al palazzo, tra gli arancioni che si infilano tra i suoi capelli mossi e spettinati. Il suo ‘solito’ lo ricordo sempre bene, chissà perché. Lei è così solare e colorata. Un piacere dell’anima. E quando lo preparo le scelgo le fettine di arancia più succose, le verso il Prosecco migliore e abbondo un po’ con l’Aperol, come piace a lei. Finisce spesso tardi al lavoro, in ospedale, fa la fisioterapista. Ha un’energia che mi sorprende ogni volta. 

Il suo sprizzetto le toglie via in un lampo le fatiche di una giornata, dice.

“Tutto bene Romi?” le domando mentre raccolgo i mozziconi da per terra.

“Certo cara, grazie. Sono solo un po’ stanca stasera. Anche tu vero?” risponde sorridendo. Faccio sí con la testa, senza troppa importanza. “Spritz sempre al top! Sei un angelo tu. Buona serata tesoro.” aggiunge salutando con la mano e il pollice in su, per rafforzare il concetto.

“A te, a presto cara” le mando un bacio con le dita unite come fanno i bambini. 

Mi torna il sorriso e mi metto a canticchiare, mentre finisco di fare il giro dei tavoli da sistemare per domani.

Forse ha ragione il mio amico. 

Forse ‘il solito’ è cosa buona e giusta. Non si può certo fare di tutta l’erba un fascio, è importante capirlo.

Forse dipende da chi lo chiede o da come. Tutto qui. 

Buon ‘solito’ a voi, alla prossima comanda!