La Lavastoviglie

Una pillola da bar di Roberta Raeli

 

A noi due, dissi al principio. 

E la lavastoviglie iniziò a spruzzare acqua da tutte le parti, a causa di un errorino tecnico. Un banale errore, si diceva, causato ovviamente da me, nel disperato tentativo di lavare, contemporaneamente, tutte le tazze, servire tutti i caffè lisci, macchiati, lunghi, corretti, ristretti, dalle miscele provenienti da millemila affascinanti località del mondo. 

Uno stupidissimo errore di disattenzione, aggiungerà la collega con sguardo di sufficienza, spegnendo la colpevole lavastoviglie col tasto giusto. 

Sarà anche vero, ma dall’ansia da prestazione consegue, in genere, un pessimo risultato, con tanto di medaglia.

A noi due, ridissi, alla seconda giornata di prova. Quelle eterne giornate che sembrano non passare mai, in un angolo del locale, dove profumi e suoni si mescolano, giungendo ovattati e leggeri all’orecchio di chi lava i piatti, cioè io. 

Dove ti pare di essere dentro la fine del mondo, sepolta tra vassoi colmi di tazze, tazzine e tazzurielle.

Dove anche il più resistente e tenace senso dell’umorismo schiatta, devastato, tra gli spruzzi acqua e sapone. 

Uno due tre, poche mosse, risultato garantito. 

Peccato che appena ci provo io, quei magici numeri inizino a litigare. 

O forse ho sbagliato a premerli? 

Forse li ho invertiti, intrecciati, ingarbugliati? 

Per la sadica legge di Murphy il mio tocco crea disagi e malfunzionamenti.

Ma alla fine della giornata, dopo aver nell’ordine rovesciato tazzine, incastrato bicchieri (non chiedetemi come), ordinato tramezzini che non c’erano, inseriti nelle comande macchiati che erano macchiatoni, e americani che erano aperitivi e non caffè, fatto la lotta con la spina della birra, insomma alla fine, dicevo, ho imparato. In un momento di calma. Ho imparato a posizionare sotto tutte le tazzine perfettamente combinate, che tetris scansate proprio, mettendo sopra il contenitore dei piattini, magicamente in equilibrio, come su un ponte tibetano. Ho imparato a crearmi spazio mentale e non farmi prendere dal panico quando le persone sono più dei cucchiaini disponibili. Ho imparato a far scivolare i cazziatoni da un orecchio all’altro, fino all’infinito, ad avere la famosa pazienza che non tutti hanno, a fare grandi sorrisi anche se la testa sembra esplodere, che tanto non cambia nulla ma almeno così mi diverto di più.

E soprattutto ho imparato a prendere le cose meno sul serio, ma questo forse lo avevo già metabolizzato da un po’.

Perché, a voler ben vedere, lavorare dietro il bancone è un privilegio non per tutti. È un dono da accogliere con entusiasmo, come quei regali che aspetti da una vita. È un modo per entrare in relazione con il mondo, con il pianeta intero. Perché una volta imparato il mestiere, è il caso di dire, lo puoi fare ovunque. Perché l’energia universale in un bar o ristorante o birreria, insomma scegliete voi, è quasi palpabile e la vita cambia in meglio.

Perché la fatica è ripagata dai sorrisi delle persone, dalle gentilezze nascoste, dagli sguardi complici, dal calore umano.

E poi i colleghi, quelli che dopo una sola giornata condivisa son già i tuoi migliori amici, che lavorando così gomito a gomito è impossibile non pigliarsi.

Con alcuni, certo, ci si piglierebbe per i capelli, invece, ma per fortuna è un piccolo insignificante dettaglio cui non badare.

Vale la pena soffermarsi sulla bellezza, su chi ti dà una pacca sulla spalla a ogni errore mancato anziché puntare il dito, su chi ti suggerisce all’orecchio il nome del cliente per aiutarti a non fare figuracce, su chi ti sostituisce al volo quando vede che non ce la fai più.

Perché, a voler ben vedere, lavorare in un locale ti fa vedere il mondo sotto un’altra luce, da un altro punto di vista, dall’alto al basso, ma anche di lato, di sotto e di profilo.

Un po’ come caricare una lavastoviglie, quando hai talmente tanti pezzi da inserire che non sai nemmeno da dove cominciare. Poi basta spostare la prospettiva, mettere il carrello un po’ più basso per accorgerti che ci sono mille angoletti da riempire. Che forse forse riesci a mettere dentro tutto. Che forse da distante tutto sembra più semplice o forse lo era da subito e tu semplicemente non te ne eri accorto.

Cin, questa volta offro io, alla prossima comanda!